Storia del Comune

Soave: radici profonde, vicende affascinanti. Scopri la storia del nostro Comune attraverso epoche e personaggi indimenticabili.

Descrizione

Soave, sorge ai piedi dei Monti Lessini, si presenta come un’amena cittadina medioevale, dominata dal Castello e circondata interamente da mura merlate alla ghibellina, ripartite tra 24 torri, lambite dal fiume Tramigna. I primi insediamenti umani risalgono all’età della pietra. In epoca romana esisteva un importante “pagus” lungo la via Postumia. Il centro storico, da fonti attendibili fu però fondato in epoca longobarda, nel 500, da una tribù di Svevi dai quali deriverebbe il nome “Suaves”, “Suevi” divenuto poi “Soavi” e finalmente Soave.
I primi documenti che nominano il Castello risalgono al secolo X; il maniero si presenta come un tipico manufatto militare Medioevale, sorge sul Monte Tenda e domina la valle. Il fortilizio, secondo un diploma rilasciato da Federico Barbarossa nel 1100, appartenne ai Sambonifacio Conti di Verona. Nel 1237 fu posseduto dalla famiglia feudale dei Greppi che nel 1270 lo cedette al Comune di Verona.
Sotto la dominazione degli Scaligeri, Soave con il suo Castello crebbe d’importanza tanto che le sue mura furono più volte restaurate e rinforzate. Aspre lotte si sono accese per il suo possesso. Nel 1338 fu conquistato da Rolando de’ Rossi da Parma ed ancora da Mastino II della Scala alla testa delle truppe veneziane.Spentasi la dinastia scaligera, passò in mano ai Visconti di Milano e quindi ai Carrara di Padova.
Nel 1405, con l’aiuto dei Gonzaga, si instaurò il dominio della Repubblica di Venezia alla quale rimase fedele, tanto da meritarsi nel 1517 l’Antenna e lo Stendardo di S.Marco.
Iniziò un periodo di pace che durò per tre secoli, fino alla venuta delle truppe di Napoleone Bonaparte.
Nel periodo 1889-92 la famiglia Camuzzoni, divenuta proprietaria del castello, eseguì la ricostruzione ed il restauro di quelle parti di edificio di provata esistenza.
Soave, oltre al Castello, nel Suo centro storico offre numerosi altri monumenti come: il Palazzo dei Conti Sambonifacio del XIII sec., il Palazzo dei Conti Cavalli del 1411, il Palazzo di Giustizia ed il Palazzo del Capitano del 1375, il Palazzo Pullicidel XV sec. Abitazione di Ippolito Nievo, il Palazzo dei Conti Moscardo del XVII sec., il Duomo di S.Lorenzo martire del 1303, le Chiese di S.Giorgio del XI sec., di Santa Maria di Monte Santo dei Padri Domenicani del 1443, di San Rocco del XV sec., di Sant’Antonio del 1667 ed il Santuario di Santa Maria della Bassanella del XI sec.

 

Soave Romana
Il territorio di Soave in età romana 

Alfredo Buonopane

Attraversato dalla via Postumia e inserito, almeno nella sua parte occidentale, in un importante intervento di delimitazione agraria (centuriazione), il territorio di Soave si trovava in una posizione geografica particolarmente adatta a favorirne, in età romana, un fitto popolamento e un notevole sviluppo economico.
Purtroppo, sia per un certo disinteresse nei confronti del patrimonio storico della propria terra, disinteresse che portò alla distruzione o alla dispersione dei materiali che ripetutamente riaffioravano, sia per la mancanza di puntuali ricerche condotte sul terreno, la documentazione relativa all’età romana risulta piuttosto sporadica e frammentaria. È quindi impossibile, per l’obiettiva mancanza di dati, ricostruire dettagliatamente le vicende storiche di questo comprensorio, anche se è lecito supporre che esse, almeno nelle linee fondamentali, non si siano discostate da quelle di Verona, la città capoluogo, e del territorio che da questa dipendeva.
Se contatti commerciali e forse anche politici fra i Romani e le popolazioni locali non dovettero mancare già agli inizi del II secolo a.C., il momento fondamentale per la romanizzazione di quest’area fu indubbiamente rappresentato dalla costruzione della via Postumia, che, realizzata nel 148 a.C. su iniziativa del console Spurio Postumio Albino, collegava con lunghi rettifili le due città di Genova e di Aquileia. La costruzione della grande arteria, che ricalcava con ogni probabilità alcuni tracciati che in epoca preromana collegavano in area veneta insediamenti di un qualche rilievo, come Vicenza, Oderzo e Concordia, comportò, infatti, in un territorio non ancora romanizzato, ma forse già gravitante nell’orbita dello stato romano come una sorta di “protettorato”, l’esproprio di terre, l’instaurazione di servitú viarie, l’afflusso dall’esterno di maestranze, la presenza di guarnigioni militari.
Inoltre, anche se la sua costruzione fu dettata da scopi essenzialmente militari, in quanto si trattava di una “strada di arroccamento” , atta a favorire gli spostamenti rapidi delle truppe lungo la pianura padana, la via Postumia, proprio per il fatto che poneva in collegamento fra loro non solo due importanti città portuali come Genova e Aquileia, ma anche abitati di rilievo come Piacenza, Cremona, Verona, Vicenza, Oderzo e Concordia, si affermò in breve come uno dei piú importanti assi stradali dell’Italia settentrionale, rivestendo un ruolo primario negli scambi commerciali e culturali e divenendo di fatto uno dei principali strumenti della romanizzazione di questi territori.
Il tratto stradale tra Verona e Vicenza assunse poi una particolare importanza a partire dalla fine del III secolo d.C., quando divenne parte integrante della grande via che univa Milano ad Aquileia e da qui all’Oriente: tale ruolo è confermato dalla menzione nell’Itinerarium Antonini, una raccolta dei percorsi che si articolavano in tutto l’impero romano attribuita tra la fine del III secolo d.C. e la prima metà del IV d.C., nell’Itinerarium Burdigalense, una descrizione dell’itinerario da seguire per raggiungere la Palestina da Burdigala (Bordeaux) e per il ritorno fino a Milano, attribuita al 340-350 d.C. e, infine, nella Tabula Peutingeriana, una carta pittorica del mondo antico e della sua rete stradale, copia medievale di un documento risalente probabilmente al IV secolo d.C.

La via Postumia e il territorio di Soave

L’identificazione del tratto della via Postumia che univa Verona a Vicenza, attraversando il territorio di Soave, è tuttora oggetto di viva discussione. Due sono, infatti, le ipotesi formulate: la prima, che gode di maggior favore, suppone l’esistenza di un percorso in pianura, caratterizzato da lunghi rettifili e coincidente in sostanza con l’attuale SS 11; uscita dall’odierno abitato di San Martino B.A., la strada toccava Strà di Caldiero, toponimo in cui sopravvive il termine strata (strada), nelle cui vicinanze, all’altezza della località “Posta Vecchia”, toponimo anche questo non privo di suggestioni, doveva trovarsi un punto di sosta e di cambio dei cavalli, la mutatio Cadiano, che, nell’Itinerarium Burdigalense è collocata a X miglia da Verona. Oltrepassata Caldiero la Postumia, tenendosi ai piedi delle colline, poco piú a nord dell’attuale statale, entrava nel territorio di Soave, dove toccava le odierne località di Crociera Pilastro e San Lorenzo di Soave, per spingersi poi nel territorio vicentino, raggiungendo Masòn e proseguendo poi fino a Vicenza con un percorso che doveva coincidere con l’attuale statale.
La seconda ipotesi suppone invece l’esistenza di un percorso “alto”, che sarebbe stato suggerito, se non imposto, dall’instabilità idrografica della pianura, dove frequenti erano i fenomeni di impaludamento. Subito dopo San Martino B.A. la via Postumia piegava decisamente verso le colline in direzione di Colognola ai Colli, seguendo il tracciato di una strada ancora oggi in uso, toccando le odierne località di “Ponte di Settimo” e di “la Decima” che, nel loro nome, potrebbero conservare il ricordo del passaggio di una strada romana. Raggiunta Colognola ai Colli, la strada proseguiva per Orgnano e San Vittore, e da qui fino a Soave e a Monteforte d’Alpone, per giungere poi a Masòn e proseguire per Vicenza.
Questa ipotesi trova il suo maggiore ostacolo nel fatto che si tratta di un percorso tortuoso e con numerosi saliscendi e che presenta, quindi, difficoltà logistiche tali da renderlo poco adatto a quelle esigenze militari di spostamenti veloci e diretti, che portarono alla costruzione della via Postumia e che sono testimoniate dai lunghi rettifili che quasi ovunque caratterizzano il tracciato della via. A questo si deve aggiungere il fatto che la distanza di XXXIII miglia, pari a km 48,84, indicata dall’Itinerarium Antonini e dalla Tabula Peutingeriana fra Verona e Vicenza, trova riscontro solo supponendo un percorso grosso modo coincidente con la SS 11. In realtà tutti gli elementi addotti a favore di un percorso “alto” della via Postumia in quest’area non appaiono determinanti: l’esistenza dei due toponimi Ponte di Settimo e “la Decima” può avere, come ho detto poc’anzi, altre spiegazioni, mentre il rinvenimento di alcuni miliari nei pressi di Colognola ai Colli, non è determinante, dato che nessuno di loro è stato rinvenuto nel luogo di originaria collocazione, ma che, probabilmente, furono trasportati nella zona di Colognola ai Colli tra il Seicento e il Settecento, per ornare assieme ad altre antichità le chiese e le ville patrizie. Infine le conoscenze dei Romani nel campo dell’ingegneria stradale erano tali da consentire loro il superamento di terreni disagevoli sotto l’aspetto idrografico, ricorrendo all’innalzamento di argini di protezione o di terrapieni su cui far passare la strada, come è stato dimostrato da un recente studio della via che collegava la Postumia con Este (la cosiddetta strada “Porcilana”).
Con questo non si vuole escludere l’esistenza di una strada “alta”, da non confondersi però con la via consolare: poteva trattarsi di un percorso, risalente ancora all’età preromana, che metteva in collegamento insediamenti di una qualche consistenza e che, in caso di necessità, poteva rappresentare una meno agevole alternativa rispetto al percorso in pianura. Piú remota appare invece la possibilità che tale strada sia stata realizzata in epoca tardoantica.
Indubbiamente la presenza di una cosí articolata rete viaria non può che aver favorito lo sviluppo del territorio di Soave, facilitando il suo collegamento con due centri di primaria importanza come Verona e Vicenza e inserendolo attivamente nell’ambito di una direttrice che collegava la pianura padana con i principali porti dell’Adriatico.

La centuriazione e l’assetto territoriale

A un periodo attribuito agli anni compresi fra la calata dei Cimbri nella pianura padana (102-101 a.C.) e quelli successivi alla concessione del diritto latino agli abitanti delle regioni a nord del Po (89 a.C.) o agli ultimi decenni del I secolo a.C., risale un grande intervento di centuriazione, la particolare operazione di delimitazione, suddivisione in lotti (centuriae) dei terreni e successiva assegnazione a coloni, in base a uno schema reticolare tracciato con complesse procedure dagli agrimensori romani. Tale operazione interessò, a oriente di Verona, un’ampia area, attraversata dalla via Postumia e compresa fra San Martino Buonalbergo ad ovest e lo spartiacque fra Chiampo e Alpone ad est, fra Monti Lessini a nord e fiume Adige a sud. Questa centuriazione aveva un reticolo formato da lotti quadrati di 20 actus (m 710 circa) per lato, con un orientamento nord-est/sud-ovest di 4°30′, atto a far sì che le maglie formate dall’incrocio dei cardini e dei decumani, ovvero gli assi nord-sud ed est-ovest della delimitazione, fossero disposte in modo da favorire, sfruttando la naturale pendenza del terreno, il deflusso delle acque. Il cardine massimo, l’asse principale della centuriazione, molto probabilmente era costituito dalla direttrice Illasi-Stra di Caldiero, mentre il decumano massimo potrebbe aver ricalcato il percorso Progno di Mezzane-Progni-San Zeno. Nel territorio di Soave tracce dell’antica delimitazione sono state identificate nei pressi della località “la Carcera”, tra San Vittore e Soave, tra il Monte Bissone e il colle di Soave, testimonianze che sono anche avvalorate dall’esistenza, nell’area immediatamente a sud-est di Monte Bissone, del toponimo “Crociera Pilastro”, che nella sua composizione conserva il ricordo sia dell’incrocio di un cardine con un decumano sia del cippo che tali incroci contrassegnava. Sempre nel campo della toponomastica significativa, ma non del tutto sicura, potrebbe essere la testimonianza rappresentata dall’esistenza nei pressi di Borgo Bassano, di una strada detta “Carantiga”, il cui nome è una corruzione della forma latina callis antiqua.
Tale tipo di organizzazione del territorio portò inevitabilmente allo sviluppo di un modello insediativo caratterizzato, almeno nella fase iniziale, da notevole parcellizzazione della proprietà e da abitazioni sparse, secondo una tendenza che recenti indagini hanno dimostrato come caratteristica di gran parte dell’area veneta e che, in questo territorio, appare confermato anche dai ritrovamenti di tombe isolate o appartenenti a singoli nuclei familiari. Questo assetto territoriale, inoltre, se pure ha ostacolato, in linea generale, l’affermarsi del latifondo, non deve però aver impedito il formarsi di proprietà medio-grandi, caratterizzate dalla presenza di aziende agricole (le ville “urbano-rustiche”), articolate in una parte residenziale e in un settore produttivo. A qualche impianto di questo tipo credo si possano riferire i resti di un edificio con pavimenti a mosaico bianco, messi in luce e successivamente distrutti nel corso di lavori agricoli, sul versante di Monte Bissone e, forse, il grande deposito di mattoni romani, segnalato in località Fornello e ora disperso, che piú che essere pertinente ad una fornace per la produzione di laterizi, dovrebbe probabilmente costituire quanto resta della copertura di un edificio di notevoli dimensioni.
All’esistenza di qualche grande proprietà, appartenente a esponenti dell’élite di Verona romana, si potrebbe collegare poi sia la presenza di alcuni membri della gens Vitoria, dei quali si dirà piú avanti, sia la menzione, su un’iscrizione proveniente da Soave, dello schiavo di un L. Hostilius, di nome Vicarius, che forse faceva parte di una familia rustica, la forza lavoro impiegata prevalentemente nell’ambito delle grandi tenute agricole.
Mancano invece documentazioni relative alla presenza delle unità territoriali e amministrative piú ridotte, pagi o vici, e nessun fondamento ha, purtroppo, l’ipotesi, cara agli eruditi locali del passato, che il centro attuale di Soave fosse in età romana un pagus. Va anche sottolineato, però, il fatto che il rinvenimento di necropoli piuttosto estese, tanto immediatamente a sud della SS 11, nelle vicinanze di Castelletto, quanto lungo il pendio settentrionale di Borgo Bassano, fa ragionevolmente pensare all’esistenza di qualche insediamento di una certa consistenza, il cui nome non ci è giunto.

Economia e società

Pur nel totale silenzio delle fonti è lecito supporre che il paesaggio agrario di questo comprensorio fosse non molto dissimile da quello del resto dell’Italia settentrionale, cosí come lo descrivono numerosi autori antichi. Nella parte centuriata doveva prevalere un’agricoltura di tipo intensivo, con la produzione sia di cereali, in particolare il frumento, la spelta, il miglio, l’orzo, l’avena, la segale, sia di legumi, soprattutto fave e lenticchie. Non doveva mancare, come oggi, lo sfruttamento degli alberi da frutto, in particolare il melo, il pero, il ciliegio, il noce, il melograno, il nespolo, il melo-cotogno, e un posto fondamentale doveva essere occupato dalla vite, la cui coltura vantava in tutto il territorio veronese una lunga, consolidata e affermata tradizione, tanto che alcuni vini veronesi, noti col nome di vina Raetica, forse prodotti anche nel territorio di Soave, giungevano fino alle mense della casa imperiale.
Non si può neppure escludere che nelle aree pedemontane meglio esposte al sole, si coltivasse, proprio come avviene oggi, l’olivo: doveva trattarsi in ogni modo di una coltivazione in scala ridotta, che mirava piú che altro a soddisfare il fabbisogno interno di olio.
Nelle zone piú umide della fascia pianeggiante si coltivava quasi certamente il lino, di cui nell’antichità si sfruttavano non solo il gambo per ottenerne la fibra tessile, ma anche i semi come alimento e come medicinale: infatti un’iscrizione rinvenuta nella vicina Colognola ai Colli ricorda che due operai addetti alla lavorazione del lino (lintiones) eressero a loro spese un edificio di notevoli dimensioni in onore di Apollo.
Nelle zone collinari non interessate dalla centuriazione, dove si estendevano i boschi di acero macchiato, i querceti, i faggeti e i castagneti, particolare importanza aveva l'”economia della selva”, che si articolava in una vasta serie di attività: allevamento brado dei suini, favorito dall’abbondanza di ghiande, caccia, raccolta di legna da ardere, di frutti spontanei, di bacche, di funghi, di erbe commestibili o officinali.
Praticato era pure, specie nelle aree piú idonee, l’allevamento degli ovini, che doveva dar vita non solo alle fiorenti attività artigianali, se non industriali, ad esso connesse, per le quali il territorio veronese era noto nell’antichità, ma che poteva interessare in modo particolare questo comprensorio con il fenomeno della transumanza.
Quest’ultima potrebbe essere documentata dall’esistenza presso la località di Borgo Bassano dell’odonimo “Carantiga”, derivato da callis antiqua, cui si accennava poc’anzi: infatti il vocabolo callis indica solitamente le piste percorse dalle greggi nelle loro migrazioni stagionali.
Purtroppo non piú verificabile, troppo generica e, nel complesso, poco fondata è la notizia, risalente alla fine dell’Ottocento, che a occidente del Monte Bissone, in località Fornello, fossero stati rinvenuti i resti di una fornace.

La società

Anche se poco numerose, le iscrizioni rinvenute nel territorio di Soave, forniscono tuttavia qualche interessante dato sulla composizione della società. Libero di nascita e quindi cittadino romano a pieno diritto, nonché appartenente a una famiglia di antica origine venetica, ben documentata nella Cisalpina orientale, era il L. Hostilius che per sé e per il suo schiavo Vicarius fece erigere il monumento funerario per disposizione testamentaria, come ricorda una semplice stele, proveniente da Soave e databile ai primi anni del I secolo d.C..
Difficile appurare, per l’estrema frammentarietà del monumento (una stele funeraria rinvenuta in contrada San Lorenzo e attribuibile alla prima metà del I secolo a.C.) lo stato sociale di un individuo del quale si conserva solo il cognome Menop[hilus]: trattandosi di un cognome di origine greca si potrebbe supporre che si tratti di schiavo emancipato (liberto) o di uno schiavo.

Una famiglia di notabili locali: i Vitorii

Una stele di grandi dimensioni, della quale sopravvive oggi solo un ampio frammento conservato presso il Museo Archeologico del Teatro Romano di Verona, ma che fu vista integra nel XV secolo nella chiesa di San Martino nel castello di Soave, ricorda alcuni membri della gens Vitoria, che, grazie al raggiunto benessere economico, entrarono nell’élite municipale della città di Verona.
Eccone il testo:
V(ivi) f(ecerunt) / L(ucius) Vitorius L(uci) f(ilius) Festus, / Q(uintus) Vitorius L(uci) f(ilius) Severus,/ VI viri aug(ustales), sibi et / Cassiae Sex(ti) f(iliae) Maxim[ae], [Cominiae L(uci) f(iliae) Festae, / Catiae M(arci) f(iliae) Secundae, / uxoribus, et / L(ucio) Vitorio L(uci) f(ilio) Feroc(i), / C(aio) Vitorio L(uci) f(ilio) Festo, / Q(uinto) Vitorio Q(uinti) f(ilio) Festo, / filiis, VI viris augustalibus].
“Lucio Vitorio Festo, figlio di Lucio, (e) Quinto Vitorio Severo, figlio di Lucio, seviri augustali, fecero (realizzare questo monumento sepolcrale), mentre erano ancora in vita, per sé e per Cassia Massima, figlia di Sesto, Cominia Festa, figlia di Lucio, (e) Cazia Seconda, figlia di Marco, loro mogli, e per Lucio Vitorio Feroce, figlio di Lucio, Gaio Vitorio Festo, figlio di Lucio, e Quinto Vitorio Festo, figlio di Quinto, loro figli, seviri augustali”.
Grazie a questa iscrizione e a un’altra, oggi murata nel campanile della chiesa parrocchiale di San Bonifacio, si può cosí ricostruire lo stemma di questo importante nucleo familiare:
Si tratta, quindi, di due fratelli, liberi di nascita (ingenui), figli di un L. Vitorius, non altrimenti noto, e di una Iuventia, appartenente a una famiglia documentata nella vicina Colognola ai Colli e menzionata insieme ai figli nella già ricordata iscrizione di San Bonifacio; il primo di essi, L. Vitorius Festus, dopo aver sposato in prime nozze una Cassia Maxima, si sposò poi con una Cominia Festa, dalla quale ebbe due figli maschi, mentre il secondo, Q. Vitorius Severus, si uní a una Catia Secunda, dalla quale ebbe un figlio maschio.
La lapide offre numerosi spunti di riflessione: in primo luogo tutti i maschi della famiglia fecero parte, nella vicina Verona, del collegio dei seviri augustali, un’associazione che si occupava essenzialmente del culto imperiale, i cui membri erano scelti fra persone di notevoli disponibilità economiche, dato che non solo al momento della nomina bisognava versare, a garanzia del proprio operato, una consistente somma in denaro (summa honoraria), ma bisognava inoltre dar spesso prova di munificenza nei confronti della collettività, organizzando a proprie spese banchetti, sacrifici, giochi, donazioni per la realizzazione di opere pubbliche. In cambio, tale honos documentava presso i concittadini un raggiunto prestigio sociale, che si manifestava anche con il permesso di rivestire la toga orlata di porpora, di esser preceduti in pubblico da due littori, di avere il privilegio, tipico dei magistrati, della sedia pieghevole in legno e avorio (sella curulis). Nel nostro caso l’ascesa sociale della famiglia appare ben consolidata, anche se, probabilmente, non si registrarono nel tempo ulteriori avanzamenti: infatti i figli furono sì, come i genitori, seviri augustali, ma, almeno a quanto è dato sapere, non rivestirono poi altri incarichi politico-amministrativi in ambito cittadino. Degni di nota sono pure, come accennavo poc’anzi, i matrimoni contratti dai due fratelli: L. Vitorius Festus sposò dapprima una donna appartenente alla gens Cassia, una delle piú illustri famiglie veronesi, i cui membri avevano rivestito importanti cariche in ambito locale e nazionale; in seguito, presumibilmente dopo la morte della prima moglie, contrasse un secondo matrimonio, forse meno significativo sul piano sociale, in quanto la gens Cominia è scarsamente attestata a Verona e nel Veronese e non sembra aver rivestito un ruolo economico o sociale di un qualche peso. Il fratello sposò un’appartenente alla gens Catia, ben documentata a Verona e nell’agro, che fra i suoi membri annoverava anche un esponente del mondo imprenditoriale e un seviro augustale, e che nei pressi di Soave doveva avere dei possedimenti fondiari, come documenterebbe il toponimo di origine prediale Cazzano.
La presenza dei Vitorii nell’area di Soave è indubbiamente legata all’esistenza nella zona di qualche fondo di proprietà della famiglia, dato che era tendenza degli appartenenti a questi gruppi sociali investire nell’acquisto di proprietà terriere i proventi derivati da altre attività economiche, in particolare il commercio. E credo che sia indicativo, al riguardo, il fatto che i due fratelli, insieme alla madre, sciolgano un voto a Mercurio, che proprio delle attività mercantili era il protettore, come si legge sul piú volte menzionato altare di San Bonifacio:
Mercurio / L(ucius) Vitorius Festus, / Q(uintus) Vitorius Severus, / Iuventia, mater, / v(otum) s(olverunt) l(ibentes) m(erito).
“A Mercurio. Lucio Vitorio Festo, Quinto Vitorio Severo (e) Iuvenzia, (loro) madre, sciolsero il voto volentieri e meritatamente”.

La religione

Nessuna testimonianza abbiamo sulle divinità venerate in questa zona in epoca romana. È perciò di particolare interesse un dato offerto dalla toponomastica: nel settore nordoccidentale del territorio di Soave, nei pressi della località di Castelcerino, è documentato un “Vajo delle Anguane”, toponimo nel quale sopravvivono, con tutta probabilità, tracce di antichi culti indigeni. Le Anguane, infatti, favolose creature delle montagne venete, traggono il loro nome dalle *Aquanae, un termine ricostruito dai linguisti97 con cui si definiscono alcune divinità che in epoca preromana presiedevano alle acque e al loro uso, divinità che con la romanizzazione furono sostituite per lo piú dalle Nymphae e dalle Lymphae, il cui culto è vivo in aree contigue al territorio qui considerato.
Maggiori notizie, anche se spesso non verificabili, abbiamo riguardo al culto dei morti. Nel territorio di Soave è attestata quasi esclusivamente la cremazione che nel mondo romano, e in particolare nell’Europa occidentale, fu ampiamente praticata durante gran parte dell’età repubblicana e almeno fino alla prima metà del II secolo d.C., quando la diffusione di mode provenienti dal mondo orientale e un diverso atteggiamento psicologico nei confronti della sepoltura riportarono in auge il rito dell’inumazione. La pratica della cremazione è attestata sia nelle vaste necropoli scoperte a Castelletto e a Borgo Bassano sia nelle tombe isolate rinvenute a Contrada Carniga/Cerniga e a Colombara San Lorenzo. Per quanto riguarda invece l’inumazione, l’unica testimonianza potrebbe essere rappresentata dal sarcofago a cassa, che in epoca imprecisabile venne reimpiegato come vasca battesimale nella chiesa parrocchiale di Castelcerino.
Il rituale funerario non si distacca da quello noto per l’Italia settentrionale: le ceneri del defunto, raccolte in un’urna, venivano deposte nella sepoltura accompagnate da un corredo la cui composizione variava in quantità e qualità in base alle condizioni economiche e sociali del defunto; dalle notizie che ci sono giunte si ponevano nelle sepolture balsamari e vasetti in vetro, piatti in ceramica e oggetti da toeletta, cui si aggiungeva la moneta che serviva per pagare il viaggio ultraterreno (il cosiddetto “obolo di Caronte”) e una lucerna, dall’evidente valore simbolico. È questo il caso delle tombe rinvenute nella necropoli di Castelletto, della sepoltura scoperta in Contrada Carniga/Cerniga e, soprattutto, di quella messa in luce a Colombara San Lorenzo: qui nei primi anni del Novecento, eseguendo uno scasso per l’impianto di un filare di viti, apparve una tomba a cassa parzialmente scavata nella roccia, con un corredo particolarmente ricco e appartenente ad una donna di agiata condizione. Era costituito infatti da una patera in bronzo argentato, da uno specchio anch’esso in bronzo argentato, da numerosi balsamari e altri vasetti in vetro, da parecchi anellini in bronzo e da una moneta, che venne attribuita al I secolo d.C.; fra gli oggetti del corredo furono rinvenute anche due cerniere in ferro e alcuni chiodi in ferro anch’essi, appartenenti ai resti del letto in legno impiegato per deporre la defunta sul rogo. Sempre a personaggi di rango doveva appartenere la tomba a camera, con pareti ornate da affreschi, fra i quali spiccava una figura femminile resa con colori assai vivaci, forse il ritratto di una defunta, segnalata fra le sepolture della necropoli di Borgo Bassano e oggi, malauguratamente, non piú rintracciabile. Può essere interessante ricordare che l’affresco, ritenuto una raffigurazione della Vergine Maria, fu oggetto di viva devozione popolare, finché non deperí completamente.

Articolo tratto da “Soave, terra amenissima, villa suavissima”

 

Soave Medioevale 

(IX-XV sec.)* 

Gian Maria Varanini

Premessa: le fonti documentarie per la storia di Soave

La situazione delle fonti documentarie medievali relativa al territorio dell’attuale comune di Soave non è delle piú felici, né per l’alto né per il basso medioevo. Per l’alto medioevo, la carenza non stupisce e dipende in linea di massima da motivazioni di carattere generale che riguardano l’intero territorio italiano (e non solo esso). La crisi della civiltà antica comportò infatti la decadenza di quelle istituzioni municipali, che avevano una effettiva ‘presa’ sul territorio; vennero meno, tra l’altro, le fonti epigrafiche. La produzione e soprattutto la conservazione delle fonti scritte divennero un fatto non consueto e non scontato. I testi cronistici e narrativi scomparvero del tutto o si rarefecero, trascurando – in ogni caso – la dimensione locale; pochi notai o giudici, in età longobarda e carolingia, erano in grado di redigere documenti. Soprattutto, solo le istituzioni ecclesiastiche (e non tutte: solo quelle delle città – gli episcopii, i grandi monasteri, i capitoli delle cattedrali -, non le pievi rurali o i piccoli monasteri di campagna) furono in grado di conservare la documentazione scritta. E anche le scritture conservate da questi enti – in genere, atti che certificavano il possesso fondiario – per fattori diversi (l’incuria, oppure la selezione consapevole degli uomini) non tutti, anzi, sopravvissero. Per quanto riguarda Verona, questo schema generale è perfettamente rispettato: la documentazione altomedievale pervenuta sino a noi è relativa soprattutto ai grandi monasteri benedettini cittadini (S. Zeno, S. Maria in Organo) e non cittadini (S. Colombano di Bobbio, S. Giulia di Brescia) e al capitolo della cattedrale, visto che l’archivio del vescovado di Verona è andato distrutto. Solo nel secolo XI sono fondati due nuovi monasteri di una certa importanza, S. Giorgio in Braida e i SS. Nazaro e Celso, e il panorama documentario si arricchisce un po’. Anche molte altre chiese cittadine (le future chiese parrocchiali) produssero della documentazione, talvolta anche abbastanza consistente, ma tale documentazione è andata largamente perduta.
Da queste semplici constatazioni dipende una conseguenza elementare, ma decisiva per la storia locale veronese dell’alto medioevo. Ricostruire in modo preciso l’organizzazione economica, il paesaggio agrario, la società di un villaggio o di una vallata è relativamente facile per quelle località ove si concentravano i beni degli enti ecclesiastici sopra citati, è al contrario difficile o problematico per altre. In generale, sono favorite le aree collinari: nell’alto medioevo, il grave dissesto ambientale determinato dalla crisi dei municipia romani determinò l’abbandono delle colture nelle zone di pianura, impaludate e inselvatichite, e un intenso sfruttamento agrario (nonché un insediamento umano altrettanto fitto) negli spazi piú salubri e piú vocati alla cerealicoltura, alla viticoltura e all’olivicoltura; essi nel territorio pedemontano dell’Italia padana rappresentano la spina dorsale dell’economia agraria. Purtroppo, nella porzione orientale della fascia pedecollinare del territorio veronese (corrispondente agli attuali comuni di Lavagno, Mezzane, Colognola, Illasi, Soave) né S. Zeno, né S. Maria in Organo, né il capitolo della cattedrale di Verona possedettero beni fondiari consistenti. Pertanto questi territori non sono nelle condizioni eccezionalmente fortunate dal punto di vista documentario, nelle quali si trova la media e bassa Valpantena, o la valle Fontensis (la valle di Montorio), e neppure nelle discrete condizioni nelle quali si trovano l’attuale Valpolicella (ricca di documenti soprattutto nella valle Veriacus – l’attuale valle di Negrar -, assai meno nella valle Provinianensis, corrispondente alle attuali valli di Fumane e Marano e al territorio pianeggiante al loro sbocco) e la Gardesana meridionale (da Torri verso sud): zone che dispongono – in particolare la Gardesana – di decine di documenti per i secoli IX e X.
La storia di Soave nell’alto medioevo deve di conseguenza essere ricostruita, con estrema prudenza, sulla base dei pochissimi dati disponibili. Occorre aspettare il sec. XII perché un discreto numero di documenti relativo alla chiesa di S. Maria della Bassanella, soggetta a SS. Nazaro e Celso di Verona – si badi: documenti prodotti per il monastero veronese, redatti assai spesso a Verona, conservati allora come oggi (o comunque da epoca assai antica) nell’archivio monastico, non certo a Soave presso la chiesa -, consentano di gettare una fioca luce sulla società locale.
Il guaio è che la situazione documentaria relativa a Soave (come a Illasi, a Colognola, a Lavagno) non migliora molto neppure nel corso dei secoli XII e XIII, il periodo che segna l’affermazione del comune cittadino. Questo nuovo soggetto istituzionale e politico fa della documentazione scritta, e del passaggio dall’oralità alla scrittura uno strumento efficace e fondamentale per lo stabilirsi definitivo del suo potere: un potere che tende all’egemonia e al superamento del particolarismo, perché comporta (ovviamente in modo progressivo) l’esclusività nell’uso della forza, nell’amministrazione della giustizia penale, nella esazione fiscale nel territorio corrispondente all’antico comitato e alla diocesi di Verona. Ma gli archivi del comune di Verona e della signoria scaligera sono infatti stati distrutti, salvo pochi brandelli; e la documentazione ‘pubblica’ non inizia prima della fine del Trecento – inizi Quattrocento, quando sotto la dominazione viscontea (iniziata nel 1387) e poi veneziana (1405) il comune di Verona riorganizza la propria struttura amministrativa. Dunque, quel che è facile fare per il Duecento e Trecento in tante città d’Italia – studiare l’economia e la società rurale attraverso le fonti cittadine – è impossibile farlo per Soave. O per meglio dire: è impossibile farlo con quella completezza e quella accuratezza che sarebbe auspicabile. Bisogna accontentarsi di accumulare, pazientemente, notizie isolate sulla base della documentazione prodotta e conservata dagli enti ecclesiastici, usando la stessa metodologia adottata per l’alto medioevo, e bisogna cercar di comporre queste notizie in un quadro il piú possibile coerente.
Naturalmente, per i periodi piú vicini a noi non mancano altre ‘fonti’ significative, che integrano efficacemente le notizie che possiamo trarre dai documenti scritti: e basterà ricordare le epigrafi dell’età di Cansignorio e le costruzioni della tarda età scaligera, a partire dal castello stesso, che è il simbolo dell’identità di Soave.

Questa lunga premessa già chiarisce che le mie osservazioni sulla storia medievale di Soave non potranno avere nessun carattere di sistematicità, di completezza nella ricostruzione storiografica. Esse avranno tuttavia un supporto efficace nel confronto con i recenti studi dedicati alle vicende medievali dei contigui territori di Lavagno e di Illasi, dovuti a Franco Scartozzoni, e con altre ricerche dedicate alle altre vallate prealpine del territorio veronese. Da annotazioni sparse e da riflessioni comparative a volte esplicite, a volte appena accennate, ho tentato di far emergere le profonde omogeneità che segnano l’evoluzione istituzionale e socio-economica di questi territori e di queste comunità, e nel contempo le peculiarità che rispetto ad essi caratterizzano Soave: peculiarità che si riassumono, in ultima analisi, nella sua posizione geografica, nella sua natura di borgo di confine, e nella conseguente ‘vocazione’ militare che interferisce e convive con l’ovvia vocazione agraria. In questo modo, queste annotazioni sulla storia medievale di Soave verranno a costituire i tasselli di alcuni mosaici piú ampi, ancora da precisare compiutamente nella loro fisionomia d’insieme: da un lato, la ricostruzione di una fase decisiva della vicenda storica del territorio veronese orientale, e dall’altro una conferma ulteriore – con caratteristiche non dissimili da quelle dalla Valpolicella, della Gardesana, della Valpantena – della dinamica sociale ed economica che caratterizza la collina veronese nel medioevo.

Tracce dall’alto medioevo: l’età longobarda?

Le deduzioni degli studiosi di linguistica e di toponomastica vanno sempre considerate con estrema prudenza, sul piano storico, quando non siano supportate da altre fonti (documentarie, archeologiche, ecc.). Questa elementare dichiarazione di metodo va ribadita nel momento in cui qui si ricorda – a proposito di Soave nell’alto medioevo – che accreditati studiosi di toponomastica veneta, oltre che di storia, inseriscono il toponimo ‘Soave’ in un gruppetto di nomi locali “assai interessanti poiché ci attestano la presenza di etnici germanici con notevole verosimiglianza, e pertanto l’insediamento nel Veronese di schiatte germaniche note dalle fonti storiche”. Si ritiene che ciò valga con larghissima probabilità per una località di pianura come Zevio (“Gebitus”, “Zevedum”, cui si connette l’aggettivo “zevedanus” nelle fonti antiche), ricollegato ai Gepidi, una popolazione che Paolo Diacono associa ai Longobardi; e con molta minore certezza per Sarmazza, località della collina ad est di Soave, che ricondurrebbe ai Sarmati. Ovviamente, il toponimo Soave – che si presenta nelle attestazioni anteriori al 1000 in forme abbastanza costanti nonostante le varianti (non “Soavium”, “Soave”, che sono sempre forme attestate tardi, ma “Suave”, “Suavis”, e il piú incerto – perché frutto di una integrazione dell’editore, ma probabile “Altusuavus”) – è collegato ad un possibile stanziamento di Svevi. Secondo il Pellegrini, non mancherebbero riscontri provenienti da altre regioni italiane, come una “curte Suavis” nel Modenese, citata in un documento del 1077, “il cui nome può richiamare gli Suavi di Paolo Diacono”.
Si tratta, è bene ribadirlo, di una semplice ipotesi, fondata unicamente sull’assonanza linguistica; un’ipotesi della quale ricerche piú recenti sembrano sfumare piuttosto che rafforzare la plausibilità. È vero naturalmente che nell’ambito del popolo longobardo varie componenti etniche, tra le quali Gepidi e Svevi, mantengono le loro tradizioni e una loro riconoscibilità, e che secondo Paolo Diacono nel grande esercito che si muove dalla Pannonia nell’anno 568 anche nuclei di tali popolazioni sono presenti. Ma è altrettanto vero che è per lo meno ardito fondarsi in modo esclusivo, per attestare un possibile insediamento, su elementi cosí labili, per giunta in un contesto nel quale “la molteplicità della terminologia etnica non costituisce certo un’eccezione, bensì la regola nell’Europa altomedievale”. Proprio nel secolo VI, l’identità sveva sfuma infatti in quella alamanna (“Suebi idest Alamanni”, ricorda Gregorio di Tours); né va dimenticato il fatto che nelle fonti dei secoli I-IX (a partire addirittura da Tacito, per passare appunto a Gregorio di Tours e Giordane, e infine in età carolingia a Walafrido Strabone) la forma del nome etnico è nelle fonti latine invariabilmente “Suebi”.
Comunque, tutto ciò non ci dice assolutamente nulla di piú a proposito delle vicende altomedievali del territorio della bassa Val Tramigna, ad est di Verona. E nessun rafforzamento all’ipotesi viene dalle fonti archeologiche relative all’età longobarda relative a Soave: testimonianze che grazie agli attenti studi recenti possono essere fruttuosamente inserite in un discorso d’insieme, che tien conto comparativamente dell’intero territorio veronese. Si constata cosí che innanzitutto in tutta la collina a nord e ad est di Verona – in Valpolicella, in Valpantena, in val d’Illasi – “le testimonianze archeologiche tra VI e VII secolo, sebbene meno numerose” di quelle reperite per la Gardesana, “sembrano documentare la presenza dell’insediamento sparso”, un insediamento che in genere insiste sui luoghi già abitati in età romana. È su questo sfondo che vanno collocati i ritrovamenti relativi all’età longobarda (quasi tutti risalenti alla seconda metà dell’Ottocento, e in particolare all’attività di raccoglitore e di studioso di Carlo Cipolla). Si tratta in genere di piccoli gruppi di tombe, quando non si tratta di sepolture isolate. Ma mentre nella bassa val d’Illasi – considerando insieme Tregnago, Cellore d’Illasi, Colognola ai Colli – la massa dei dati (e il numero delle tombe) appare globalmente molto cospicuo, e tale da suggerire un insediamento consistente e duraturo, da Soave non proviene che un solo isolatissimo reperto, una fibbia da cintura in bronzo ritrovata nel 1881 proveniente da un contesto funerario del quale non si sa niente. Che questa fibbia tipologicamente rinvii a modelli bizantini non significa, ovviamente, un bel nulla: è superfluo ricordare che la storiografia attuale ha definitivamente superato il meccanicismo deterministico di un passato non troppo lontano, secondo il quale dalle caratteristiche di un corredo funerario di età – poniamo – longobarda si deduceva, si ‘doveva’ dedurre infallibilmente l’appartenenza etnica del defunto; e si ipotizza al contrario che la scarsità di corredi con armamenti rinvii ad una precoce integrazione fra longobardi e latini in tutta l’area. Ma soprattutto, bisogna tener conto del fatto che un reperto, una tomba, sono una realtà irrilevante, visto che documenti scritti non ce ne sono e che i dati toponomastici valgono quel che valgono. Fino a che non emergano altri dati, dunque, non si potrà dire assolutamente nulla sulla presenza longobarda nella zona di Soave; e che questi ‘longobardi’ fossero ‘svevi’, resta – tanto piú – una mera indimostrabile illazione.

Tracce dall’alto medioevo: i secoli IX e X

È solo con la tarda età carolingia (seconda metà del sec. IX) e con i primi decenni del secolo successivo che una pur scarsissima documentazione consente di farsi un’idea della dinamica sociale e territoriale in atto nella valle del Tramigna.
La prima menzione di Soave nella documentazione scritta sembra infatti risalire all’anno 877, quando si discute – probabilmente a Verona – una causa fra la “pars Sancti Zenonis”, cioè il monastero di S. Zeno, e “Avuardus filius bone memorie Gisoni de vico Altus[uav]us et Giselardus filius […] de comitatu Vicentine de loco qui nominatur Montese”. La controversia fra “Avuardus” e “Giselardus” (che il documento definisce “cognati” cioè legati da parentela) e il monastero riguardava una “massaricia” “in silva Mauriatica loco nuncupant Es[c]eve”, vale a dire una casa colonica con podere a Moradega, nella bassa pianura presso il fiume Tione, in un’area territoriale nella quale S. Zeno aveva ed avrebbe avuto a lungo cospicui beni fondiari. I due “cognati” risultano “habere et detinere” questi beni, non si sa a che titolo: ma di fronte alla documentazione che lo scabino Stadelfredo, rappresentante degli interessi del monastero esibisce – una “cartula donationis” che due fratelli chierici, Aredeo e Antelino, avevano fatto a S. Zeno – non possono oppugnare alcunché. Il nesso con Soave sta tutto nel toponimo “vicus Altus[uav]us”, che è frutto di un’integrazione dell’editore; la plausibilità di questa integrazione è peraltro rafforzata, come vedremo subito, dal patronimico Gisone, un nome che ricompare negli altri due documenti altomedievali veronesi che citano Soave. Se il toponimo è attendibile, ne consegue che “Avuardus” e “Giselardus” – originari il primo di una località ai confini orientali del comitato veronese, il secondo del comitato vicentino – hanno interessi economici in una località lontana, nella bassa pianura. È pochissimo, ma è qualcosa, perché da questa constatazione si può ipoteticamente dedurre un certo prestigio sociale di “Avuardus”.
Orbene, una quarantina d’anni piú tardi un Gisone da Soave – e il fatto che il nome sia il medesimo del padre di “Avuardus” va perlomeno segnalato, anche se l’identificazione è destinata a restare solo un’ipotesi – sottoscrive (“signum manibus Gisoni de Suavus testis”) ad un atto molto importante. Nel dicembre 914, a Verona, il conte di Verona Ingelfredo dona al monastero di S. Zaccaria di Venezia beni nel comitato di Monselice e a Cona, nel padovano; i testimoni (fra i quali alcuni vassalli del conte) sono tutti di etnia alamanna, come Ingelfredo, ad eccezione appunto di Gisone e di Milone (“signum manu Milonis vasso domno regis Francorum”).
Costui altri non è che il capostipite dei conti di San Bonifacio, allora ad una svolta importante della sua fortunata carriera politica. Di etnia franca, figlio di un Manfredo, radicato inizialmente nel territorio di Novara, Milone era comparso per la prima volta nel territorio veronese nel 906, nell’entourage del vescovo di Verona, ma si era poi rapidamente fatto strada alla corte di Berengario I: nel 910 è già “vassus regis”, la stessa qualifica che ha nel 914. La carriera di Milone è nota: fedele a Berengario, ne vendicò la morte nel 924, ma seppe anche restare a galla ai tempi di re Ugo. E si trattò dell’ascesa di una famiglia, non di un singolo personaggio: se infatti Milone raggiunse la carica di marchese, il fratello Manfredo fu conte di Lomello, il nipote Egelrico fu conte di Verona, e l’altro nipote Milone (fratello di Egelrico) vescovo della stessa città. In questa sede, interessa il fatto che negli stessi decenni Milone seppe consolidare la sua posizione patrimoniale nella parte orientale del distretto veronese; in particolare, prima del 929 re Ugo gli donò la villa di Ronco all’Adige (“quam michi senior meus Ugo dominus rex per paginam presenti iuri proprietario concessit”).
Fu soprattutto nei decenni successivi che la potenza del capostipite dei San Bonifacio si radicò definitivamente in questo territorio e acquisí, conformemente ai tempi, caratteristiche in nuce signorili. Il suo testamento del 955 menzionerà infatti ben tre castelli: Ronco all’Adige, Begosso (sull’Adige), e San Bonifacio (“alio castro meo cum casa solariata cum sala et caminata atque labia vel subtessorar atque capella inibi constructa in honore Sancti Bonifatii”). Ma è sulla prima attestazione di un suo radicamento al territorio veronese, quella del 929, che occorre tornare brevemente. Si tratta di un atto rogato a Ronco, col quale Milone (che allora ricopriva la carica di conte di Verona) dona ai canonici della cattedrale di Verona la chiesa di S. Maria di Ronco. Ivi, insieme con Vulperga moglie di Milone e con un gruppetto di uomini di tradizione franca (“signum manibus Arnoldus et Arnulfus et Ubertus filius itemque Uberti ex francorum genere testes”), sottoscrive di nuovo come testimone Gisone da Soave assieme ad altri: “signum manibus Vutela, Notcherius, Gerius et Giso de Suavis vassis ut supra Millo viventes lege longobardorum testes”. Premesso che l’atto è pervenuto in una copia tarda, e quindi è imprudente spaccare il capello in quattro, sembra probabile che ai tre vassalli di etnia franca (“vassis ut supra Millo”) per cosí dire si contrappongano i quattro vassalli di tradizione longobarda, forse tutti quanti originari di Soave o radicati a Soave (ma non si può asserirlo con certezza). Per quello che riguarda Gisone, comunque, dubbi non ce ne sono: egli affiancava Milone già nel 914, a Verona, e ora – quindici anni piú tardi – ricompare in qualità di suo vassallo in un atto importante compiuto da Milone (che è ora conte di Verona, e nuovamente vassallo del re), relativo alla parte orientale del comitato veronese14. È dunque stabilito un legame significativo, agli inizi del sec. X, fra il capostipite della famiglia che per secoli eserciterà diritti signorili su quest’area, che da S. Bonifacio – vicinissima a Soave – prenderà il nome, che segnerà insomma irreversibilmente le vicende storiche di questo territorio, e Soave: donde proviene – e dove forse risiede – il vassallo Gisone. La creazione di una rete di fedeltà personali è uno degli strumenti fondamentali del consolidamento signorile, e infatti, come è stato osservato, “non mancano indizi per segnalare rapporti probabili di clientela fra Milone e persone residenti presso le zone in cui si radica la presenza patrimoniale e signorile sua e della sua famiglia”. Non sempre peraltro questi rapporti “si configurano o sono intenzionalmente espressi sotto l’aspetto vassallatico” come accade per Gisone, e a volte Milone si limita a far partecipare uomini di tradizione franca agli atti da lui compiuti.
La crescente incisività della presenza dei discendenti di Milone sulla porzione orientale del comitato veronese e sul territorio ai confini con il comitato vicentino è confermata da uno dei pochi diplomi di re Adalberto, il figlio di Berengario II. Nel 961 infatti il re concesse ad Egelrico, il nipote del defunto Milone, conte di Verona, i diritti di acquisire la “terra mortuorum” in un’ampia porzione del comitato veronese, in sostanza in tutta la zona ad est della città: “idest in valle Paltenate et in monte Agudulo et in valle Fontensi et in valle Pretoriense et in valle Longageria et in alto Suave et in valle Treminianensi et omnia que de eisdem iuribus interiacent a Campo Martio usque ad Biunde et usque Alpone de Sancto Bonifatio et usque Lisinum maiorem et minorem”. I beni fondiari dei morti senza eredi sarebbero dunque entrati a far parte del patrimonio allodiale del conte. Come è stato osservato, lungi dal creare sin da allora un distretto signorile imperniato su S. Bonifacio (come ritenne il Cavallari), questo “preceptum” era comunque destinato ad “incrementare in modo cospicuo anche se frammentario” la presenza fondiaria della famiglia, supportandone l’autorità. Esso configura comunque una posizione di preminenza sociale in un’area territoriale che è definita con precisione, certo su suggerimento dell’entourage di Egelrico che richiese il diploma: è compresa la val Pantena (il “mons Agudulus” è lo spartiacque fra la val Pantena e la valle di Avesa o la Valpolicella) e tutte le valli orientali del distretto; e in pianura il riferimento al Campo Marzio esclude la città, la “Campanea maior” e tutta la parte occidentale del distretto, mentre il riferimento al fiume “Alpone de Sancto Bonifatio” indica il confine orientale del comitato. È in questo contesto che ricompare – abbinata alla denominazione “vallis Treminianensis” – l’espressione “alto Suave”, in precedenza attestata nell’877 come luogo di residenza o di origine di “Avuardus”. In questo contesto, essa sembra indicare un’area territoriale piuttosto che uno specifico insediamento; una quarantina d’anni piú tardi tuttavia una locuzione analoga (“in castro Suave Alto”, anno 1001) indica il luogo di residenza di un Guglielmo figlio di Guglielmo, e segnala nel contempo, per la prima volta, l’esistenza di un castello.
Ad Egelrico, e alla presenza fondiaria della sua famiglia nel territorio di Soave, rinvia un’altra isolata, ma importante testimonianza documentaria. Nell’anno 1000, Ugo di Ganaceto, appartenente ad una importante famiglia emiliana, e sua moglie Imilda “filia quondam Helrici qui fuit comes comitatus Veronensis” vendono ad Azzo prete di Ganaceto la quota loro spettante dei castelli di Ganaceto e Farra nel territorio modenese, di Trecenta nel territorio ferrarese, e il possesso integrale di due corti nel territorio veronese: “seu et cortes nostres integres que nominantur Insula Brisciana et Suave cum casis, massaritiis et domuicultiles seu ceteris rebus ad ipsas curtes pertinentibus cum coloneis, aldariciis, servis et ancilles ad ipsas pertinentibus, cortes quibus ipsas cortes esse videbimus infra comitatum nostrum Veronense”18. Dunque il fatto che la figlia del defunto Egelrico si fosse sposata con l’esponente di una importante famiglia signorile, allora in fase di forte rafforzamento patrimoniale e sociale nella pianura veneta, e la presenza della corte di Soave nel patrimonio dei due coniugi rinvia certamente al patrimonio dei discendenti di Milone. È questa la sola occasione nella quale si fa menzione per il territorio di Soave di una ‘azienda agraria’ verosimilmente di dimensioni non trascurabili, organizzata nel corso del secolo X, secondo tempi e modalità che non conosciamo, secondo il classico modello bipartito della curtis – per quanto si può dedurre dal generico formulario notarile.

Soave nel secolo XII: il quadro istituzionale

La massima parte della documentazione veronese della fine del secolo X, e soprattutto del secolo XI, è ancora inedita: non si può dunque escludere che possano emergere nuovi dati, anche significativi, relativi alle vicende istituzionali o alle trasformazioni sociali ed economiche subite da Soave e dal suo territorio. Ad esempio, ha un certo rilievo l’esistenza (accertata di recente) sin dall’anno 985 su una derivazione del torrente Tramigna, in località “[Arc]a Willarigo”, di due gualchiere per la follatura dei panni di lana, donate al monastero veronese di S. Maria in Organo da alcuni abitanti di Illasi, assieme a beni ubicati nel castello di Illasi e in varie località della vicina valle. Si tratta di un’attestazione fra le piú antiche d’Europa; è il primo indizio di quella importanza dell’energia idraulica dei corsi d’acqua della parte orientale del distretto veronese per lo sviluppo manifatturiero, che risulterà poi particolarmente evidente – a partire soprattutto dal secolo XII – nel caso del Fibbio, piú vicino alla città e dotato di piú propizie caratteristiche di regolarità di portata e limpidezza di acque.
Tuttavia, si può escludere in generale – per i motivi segnalati nella premessa – che emergano dagli archivi ecclesiastici veronesi dossiers documentari significativi, tali da modificare radicalmente il quadro politico e istituzionale; e ciò non solo per Soave, ma anche per l’insieme dell’area collinare ad est della città. In termini molto generali, questo quadro può essere delineato sulla base dei due diplomi che l’imperatore Federico Barbarossa concesse ai conti di S. Bonifacio – rispettivamente Bonifacio e Sauro – nel 1164 e nel 1178, nel periodo della piú aspra lotta fra i comuni cittadini e l’impero. Si tratta di diplomi certamente interpolati e non completamente affidabili quanto al dettato, e tuttavia non inattendibili quanto alla sostanza: come ha affermato Castagnetti, “il loro contenuto non è in contraddizione con quanto sappiamo per l’epoca. Significativo il fatto che, dei molti paesi ivi elencati come soggetti al conte, di pochi sappiamo con certezza essere stati soggetti a giurisdizioni signorili, ecclesiastiche o laiche, invero le seconde assai meno numerose”. Per la zona che ci interessa, ambedue i diplomi confermano all’autorità dei conti i diritti pubblici “in villa Sancti Bonifacii, in villa et castro Soavi, in Colegnola, in Zerpa maiori et minori, in Arcolis, in Capite Alponis, in Ronco, in Meçanis, Moururi, Magrano, Badolo, Miçolis, Piri et Dulceis, e in Ylaxio, Lavagno et in eorum pertinentiis et in utriusque Lixinis”. Dunque, mentre in altre aree del comitato veronese – segnatamente la pianura a sud della città, la Valpantena, la Valpolicella (che pur figura nei diplomi per i conti) – le signorie di castello si erano robustamente affermate, mentre nella Gardesana si era fatta direttamente sentire (soprattutto nel secolo XII) la robusta autorità dell’impero, l’area orientale del distretto era rimasta, soprattutto a nord della strada vicentina, soggetta in linea di principio all’autorità del conte, anche se non mancavano ovviamente castelli e territori dipendenti da istituzioni ecclesiastiche.
Alcune di queste località soggette ad altre istituzioni non sono neppure menzionate nel testo dei diplomi per i conti (come Montorio, Trezzolano, Pigozzo, Cellore di Illasi e l’alta valle di Illasi, Caldiero); di altre, il testo del 1178 – l’elenco compreso nel quale, si sarà visto, contiene qualche località ‘intrusa’ come Peri e Dolcé in Val d’Adige – tace la parziale o totale dipendenza da altri enti (Lavagno, Mezzane, Colognola, Illasi, sulle quali esercitava diritti l’episcopio).
Ovviamente, le modificazioni che si erano verificate nell’assetto istituzionale di questo vasto territorio nel secolo XI e agli inizi del successivo sono molte e complesse, e non è questa la sede per accennarne. In linea generale, si può dire che una delle maggiori novità che ivi si registrano è il consolidamento patrimoniale di alcuni monasteri di recente fondazione o rifondazione: cittadini (come i SS. Nazaro e Celso e S. Giorgio in Braida) e non cittadini (come il monastero di Calavena, in valle d’Illasi, che – attestato per la prima volta nel 1133 – manifestò un certo dinamismo politico e riuscí a controllare pienamente la media ed alta valle, acquisendo il controllo del castello di Cogollo, già del vescovo). Qui interessa in particolare sottolineare il ruolo di S. Nazaro, che acquisí una posizione patrimonialmente importante, anche se non certo egemonica, nei territori di Lavagno, Marcellise, Colognola e in val d’Illasi; attraverso la dipendenza di S. Maria della Bassanella – fondata alla fine del sec. XI – fu presente anche a Soave.
Insomma, si può dire in generale che l’intero comprensorio nord-orientale del comitato veronese, dal fiume Fibbio al fiume Alpone e al confine col Vicentino, è contraddistinto da una presenza dell’autorità comitale diffusa ma relativamente debole; e di conseguenza diverse realtà del mondo urbano (si tratti di nuove istituzioni ecclesiastiche, o come vedremo anche di famiglie laiche eminenti) possono radicarsi patrimonialmente in modo incisivo, anche in considerazione della vicinanza alla città. Naturalmente, a S. Bonifacio – ove la famiglia comitale aveva le vere e solide basi della sua potenza (che poggiava ovviamente sul controllo effettivo e diretto di castelli e masnade di uomini fedeli) – e nell’immediato circondario la questione si presenta in termini almeno in parte diversi. Nei secoli XI e XII, l’autorità signorile della famiglia comitale si era venuta qui fortemente consolidando, e ne era stata manifestazione significativa – agli inizi del secolo XII, ai tempi del marchese Alberto – la fondazione dell’abbazia di S. Pietro di Villanova. L’irrobustimento patrimoniale ed istituzionale di questo ente – che ebbe un forte dinamismo per tutto il secolo XII, culminato nei privilegi papali ottenuti a fine secolo, ma poi esauritosi rapidamente – intaccò anche i diritti decimali della pieve di S. Lorenzo di Soave. Pur nella carenza della documentazione, possiamo presumere comunque che Soave gravitasse in qualche misura nella sfera di S. Bonifacio e dei Sanbonifacio.
Nessuna istituzione ecclesiastica, comunque, e nessuna famiglia signorile laica diversa da quella comitale fu in grado – in questo estremo lembo orientale del comitato veronese, fra la Tramigna e l’Alpone – di affermare i propri diritti signorili. Mancarono dunque quei contrasti fra signori rurali e comunità, che in molte aree del territorio veronese si svilupparono nel XII secolo (talvolta, addirittura sullo scorcio dell’XI), e che determinarono la produzione di una ricchissima documentazione: per mettere ‘nero su bianco’ diritti signorili (giurisdizionali, fiscali, di albergaria) e consuetudini comunitarie nello sfruttamento degli incolti, per accertare rendite e terre in concessione; e soprattutto per documentare, di fronte ai consoli del comune cittadino o ad altre magistrature arbitrali, controversie e relative composizioni. Ciò vale per numerose località poste a pochissimi km. da Soave, come Bionde di Porcile o Porcile (soggette al capitolo della cattedrale di Verona), o Sabbion (di S. Giorgio in Braida). Niente di tutto questo invece per Soave e per il suo territorio.
Non è dato conoscere dunque le vicende, attraverso le quali il comune di Verona giunse ad imporre la propria nominale autorità giurisdizionale su Soave. Sta di fatto che nel 1184 anche Soave figura in un famoso documento, fondamentale per la storia di Verona e del suo territorio in età comunale: l’elenco delle “ville que per Verona ad presens distringuuntur et ex antiquo distringuebantur” che apriva il liber iurium del comune di Verona, il registro cioè che elencava i diritti pubblici. L’intero comprensorio del Veronese orientale è cosí elencato: “Caldero, Suave cum Bossono, Monsfortis, Brollanicus, Montecleta, Vestena, Castelverus, Castrum Ecerini, Villanova, Sanctus Ioannes in Aucara, Sanctus Bonifacius, Arcole, Sanctus Stephanus teutonicorum, Zimella, Baldaria, Cologna”. Dato che il documento è pervenuto in una copia tarda, probabilmente cinquecentesca (oggi per giunta perduta o irreperibile), è legittimo emendare l’enigmatico “Bossono” che accompagna Soave in ‘Bassano’, cioè col borgo aggregatosi nel corso del sec. XII attorno alla chiesa di S. Maria della Bassanella (come avremo modo di precisare qui oltre). L’accorpamento di un centro minore ad un centro maggiore risponde a fini di razionalizzazione fiscale e viene praticato, nell’elenco in questione, anche per altri casi.
Nel paragrafo successivo si tenterà di rivestire di elementi piú concreti il nudo scheletro di evoluzione politico-istituzionale qui rapidissimamente disegnato.

Milites cittadini e proprietà locale nel sec. XII

A partire dagli inizi del secolo XII, la pur esigua documentazione della chiesa di S. Maria della Bassanella – recentemente fondata: la sua consacrazione risale al 1098 – consente (integrata con pochissimi altri documenti dispersi) di intravedere qualcosa delle dinamiche sociali ed economiche in atto a Soave. La chiesa era stata presumibilmente fondata su un appezzamento di terra donato nel 1094 ai SS. Nazaro e Celso “in loco et fundo Soave…in Monticello Bascano”, al quale confinavano da un lato proprietà di “Turisindus”, esponente della famiglia capitaneale veronese cui appartenne la moglie di Maltoleto, e dall’altro proprietà di un Litolfo, il cui figlio appare nel 1109 in un importante atto relativo alla corte di Coriano (appartenente a S. Nazaro) redatto nel castello di S. Bonifacio. La contiguità della nuova fondazione all’entourage aristocratico dei conti è dunque accertata da subito. La chiesa dipendeva dal monastero veronese dei SS. Nazaro e Celso; nel corso del secolo XII, fu presidiata da una comunità religiosa che comprendeva – oltre ad un “presbiter” che talvolta agisce a nome e per conto della chiesa (ma talaltra è direttamente il monastero di S. Nazaro ad effettuare locazioni e permute) – anche dei “confratres”, forse dei conversi, visto che nel 1149 si ventila la possibilità che costoro lavorino direttamente alcuni appezzamenti di terra.
Il peso ed il prestigio della famiglia comitale dei San Bonifacio, le loro relazioni, le loro fidelitates, fanno gravitare indubitabilmente, su Soave e sul suo territorio, numerose famiglie dell’aristocrazia militare cittadina, del livello piú elevato. Emblematicamente, uno dei primi documenti relativi alla chiesa di S, Maria della Bassanella riguarda proprio una donazione della famiglia comitale. Nel 1117, mediante un atto redatto nel “vicus Santi Bonifacii” (non nel castello), Maltoleto di S. Bonifacio e sua moglie Gota del fu Epone (Turrisendi) donano alla “ecclesia Sancte Marie que est constructa in episcopatu Verone in vicum Suave ubi domnus Iohannes presbyter et monachus nunc esse videtur” un appezzamento di terra che si trova “in comitatu Veronensi in suprascriptum vicum Soave in valle Tremeniensi ad locum ubi dicitur Basiano prope ipsam ecclesiam Sancte Marie”. Parecchi decenni piú tardi, nel 1178, il conte Sauro di Sanbonifacio, Musio e Fatino “frater Musolini” concedono in pegno ad un prestatore, a fronte di 360 lire avute in prestito, beni fondiari a Nogara, a Castelrotto in Valpolicella e a Soave “et in eius pertinentia” (appartenenti questi ultimi a Fatino). E i Sanbonifacio e Fatino non sono i soli membri eminenti dell’élite comunale a vantare diritti e a possedere beni in Soave. Un conosciuto documento del 1147 segnala infatti che Turrisendo figlio di Tebaldo Musio Turrisendi, esponente della eminente casata capitaneale veronese, si impegna ad investire Balduino “de Presualdo” “de tota decima sua de Suave” nel caso che taluni beni altrove ubicati non fossero pervenuti nella disponibilità di Balduino secondo le modalità prestabilite. Balduino “de Presoaldo” apparteneva ad un ramo dei Crescenzi, una delle piú facoltose ed importanti famiglie veronesi emergenti in età comunale, nell’occasione, egli giura fedeltà (“fecit fidelitatem sicut vassalus domno”) a Turrisendo. Una conferma e forse una diretta conseguenza di questo atto la si avrà nel 1160, quando Turrisendo, alla presenza del vescovo Ognibene e di Crescenzo Pressoaldi e con loro consenso, investe Tonsio e Terzano Pressoaldi “de tota sua decima de Suavo”. Lo stesso Terzano Pressoaldi, nel 1181, sarà investito insieme con “dominus Aldrigetus Pilonus de Suavo” dallo stesso Turrisendo della “decima examplorum curtis et pertinentie et districtus seu curtis Suave”.
D’altronde, negli acquisti e nelle donazioni che si susseguono nella prima metà del secolo XII emerge anche un tessuto di piccoli o medi proprietari, residenti in Soave o nelle località vicine, che certo avevano un significativo ruolo nella società locale. Nel 1116 Giovanni e Ota “de vico Soave” vendono alla chiesa terre “in suprascriptum vicum Soave in valle Tremeniensi ad locum ubi dicitur Runke”. Nel 1132 è la volta dei “filii Antonii abitaturius [sic] in vico Alto Suave” ad effettuare una permuta con il monastero dei SS. Nazaro e Celso, che nel 1137 affitta ad Aicardo del fu Alberto “de Rosa de loco Suave” terra di proprietà della chiesa di S. Maria “de ipso vico Suave”: terra “que videtur esse intra sortem de Bonidola”. Nel 1146, è documentata una donazione e una vendita da un lato “Iohannes presbiter de loco alto Suave”, che agisce a nome della chiesa, dall’altro due gruppi di cinque e quattro fratelli rispettivamente, comproprietari di terre “in loco et fundo Alto Suave ubi dicitur Casarota”.
L’esistenza, nella società locale, di queste due componenti è rispecchiata in modo chiarissimo, didascalicamente evidente si potrebbe dire, nel famoso documento del 1164 che rinvia a precedenti, e risolte, controversie di confine fra Soave e Colognola. In tale anno, i rettori di Soave confermano infatti a un uomo di Soave, Bonsignore “de Petro Batalla”, l’immunità dagli oneri da lui dovuti in quanto “vicinus” di Soave per “plobegum, dacia, guaite, et omnia alia servicia”, cioè per l’insieme degli obblighi personali (il servizio di guardia, la partecipazione a lavori di pubblica utilità) e fiscali (la “dacia”). L’immunità era dovuta al fatto che “Petrus Batalla” – il soprannome non è probabilmente casuale – aveva ottenuto vittoria in un duello sostenuto come campione di Soave contro il comune di Colognola. L’episodio risaliva a forse vent’anni avanti; ad allora sembra risalire la prima comparsa dell’organizzazione comunitaria di Soave: la comparsa nella documentazione scritta, beninteso. Nel XII secolo, in effetti, in tutta l’Italia centro-settentrionale le comunità rurali vengono assumendo una fisionomia istituzionale piú definita e precisa; ed esse definiscono questa loro identità proprio attraverso il rapporto dialettico ed il contrasto con l’autorità signorile (e non è il caso di Soave, bensì come accenniamo qua sotto quello di molti altri comuni rurali del territorio veronese, ad esempio in Valpantena) oppure attraverso il contrasto con una comunità rurale vicina, giacché delineare un confine significa assumere un’identità (ed è appunto il caso di Soave).
Ciò che è particolarmente significativo, tuttavia, e che particolarmente interessa in questa sede, è la tipologia dei partecipanti alla riunione, chiamati ad avallare la decisione dei rettori di Soave e tutti elencati nominativamente. Si riscontra infatti una netta bipartizione, tra “vicini” e “consortes”. A fianco di una decina di “vicini de Soavo” (tra i quali sono riconoscibili alcuni concessionari delle terre di S. Maria della Bassanella come Bonifacio “de Iohanne gastaldo”, un “portenarius”, e inoltre un “Ubertus de Bono de Mondragoni”), figurano infatti quattro individui con la qualifica citata di “consortes”: “Otolinus filius quondam Grepi, Trezanus Tossus de Pressoaldo atque Gilbertus stazinerius”. L’ultimo è probabilmente il titolare di una bottega o di un punto di vendita nella piazza del mercato di Verona, come indica il suo appellativo professionale, ma non è altrimenti noto, almeno allo stato attuale delle ricerche. I primi tre invece sono personaggi ben noti: cittadini di Verona, e cittadini tutt’altro che insignificanti. I due “de Pressoaldo” appartengono – si è visto – ad un ramo della famiglia Crescenzi, una delle piú autorevoli famiglie cittadine (un ramo che acquisisce precocemente una coscienza di sé, definendosi con una forma cognominale che rinvia ad un antenato). Ottolino del fu Greppo – che compare negli stessi anni (1166) come membro della “curia parium” del capitolo della cattedrale – è uno dei primi esponenti di quella che sarà la famiglia Greppi, futura detentrice del castello di Soave, sulla quale avremo occasione di ritornare con ampiezza. Ciò che qui è da sottolineare è l’omogeneità di interessi, pur in una diversa condizione, che si intravvede da un documento di questo genere fra gli esponenti piú in vista della società rurale ed eminenti proprietari cittadini. E non è meno interessante notare che una struttura analoga dell’assemblea vicinale, con la robusta presenza all’interno della comunità rurale di esponenti della società urbana (i gastaldi di famiglie eminentissime come i Lendinara, i Montecchi, ecc.: uomini di fiducia, quindi, non esponenti delle casate aristocratiche in prima persona, come a Soave) la si riscontra a Lavagno, in un contesto che sia dal punto ambientale che da quello sociale ed economico è assolutamente omogeneo36.
Come si è già accennato, a pochissimi km. di distanza da Soave e da Lavagno il quadro istituzionale suggerito dalla documentazione relativa alle comunità rurali è diverso in modo sostanziale, specie per ciò che concerne il rapporto con la città. In Valpantena, ma anche a Bionde di Porcile o a Sabbion e altrove nella parte orientale del territorio, nel XII secolo si riscontra una contrapposizione all’autorità dei signori ecclesiastici, che sono tutti enti cittadini (il capitolo della cattedrale, S. Giorgio in Braida, S. Zeno, il vescovo, i SS. Nazaro e Celso). A Soave e a Lavagno, il rapporto con il mondo cittadino è diverso: mi sembra si possa parlare piuttosto – almeno in questa fase, nel pieno XII secolo – di una forma di tutela indiretta sul mondo rurale da parte della società urbana nel suo complesso. È una influenza, una penetrazione che non è solo economica ma si riveste immediatamente – appunto attraverso la partecipazione dei “consortes” (o dei loro gastaldi, come accade a Lavagno) alle riunioni delle vicinie – di una dimensione istituzionale: senza intaccare tuttavia in modo esplicito l’autorità ‘costituita’, la dipendenza giurisdizionale di Soave e di Lavagno dal conte. È una situazione che prelude, quando subito dopo la pace di Costanza se ne daranno le condizioni politiche, a quella rivendicazione dell’autorità di “distringere”, di esercitare la forza, che l’elenco delle ville “que distringuuntur per Veronam” attesta.

L’età comunale e le lotte di fazione a Verona: i riflessi a Soave

Il documento del 1184, appena ricordato, costituisce in un certo modo un ‘manifesto politico’ del comune di Verona: elenca le ville teoricamente soggette alla sua autorità (omettendone qualcuna soggetta all’autorità signorile), e ne aggiunge anche alcune che del distretto veronese non avevano mai fatto parte, l’assoggettamento delle quali era piuttosto un traguardo che non una realtà (basterà ricordare che in questo elenco sono inserite anche Ala, nella val Lagarina, e Lonigo, da sempre appartenente al distretto vicentino). Nei decenni successivi, peraltro, attraverso un processo – ben noto alla storiografia (grazie agli studi di Simeoni e Castagnetti) – straordinariamente rapido rispetto a quanto accade in altre città comunali dell’Italia centrosettentrionale, il comune di Verona diede sostanza a quel ‘manifesto’: esso rese in molti casi effettiva – attraverso tutta una serie di accordi politici e finanziari con l’impero (dal quale fu acquistata nel 1193 la Gardesana) e gli enti ecclesiastici titolari dei diritti giurisdizionali sui castelli del contado (ciò vale per l’episcopio e il capitolo della Cattedrale) – la propria autorità sulle ville del territorio.
Non è dato sapere, per ciò che concerne la parte orientale del comitato veronese, cosa effettivamente accadde nell’ultimo scorcio del secolo XII. A partire dagli inizii del Duecento, tuttavia, la situazione si modificò ulteriormente. Le lotte di fazione fra la pars Comitis – che prendeva nome dalla famiglia Sanbonifacio ed era effettivamente da essa guidata – e la pars Monticulorum spezzarono quell’unità sostanziale che aveva contraddistinto il ceto dirigente veronese della prima unità comunale. Riemersero con maggior vigore i valori profondi che guidavano il comportamento politico delle casate aristocratiche (non importa se di antica tradizione, o di recente estrazione mercantile), radicate in questa o quella villa del comitatus: la fedeltà alla domus, all’onore e alla potenza della casata prima e piú che alla città, il prestigio conseguente all’esercizio dell’attività militare e al controllo di un castello. Senza ripercorrere qui in modo analitico vicende estremamente complesse, un riesame delle quali ci porterebbe troppo lontano, basterà ricordare che la pars Comitum raccolse una buona parte delle famiglie veronesi di tradizione aristocratica (senza per questo che si debba ritenere per valida una distinzione ‘di classe’), fu ripetutamente espulsa dalla città nel primo quarto del Duecento, e fu poi – a partire dagli anni Trenta del Duecento, quando la leadership della pars Monticulorum fu assunta in Verona da Ezzelino III da Romano – per lungo tempo bandita dalla città.
Le conseguenze sulle vicende politiche e militari che interessano Soave sono evidenti. È ovvio infatti che una zona di confine, nella quale la famiglia comitale aveva un profondissimo radicamento politico e sociale, era destinata a costituire una spina nel fianco dei poteri cittadini, anche perché era facile per chi era localmente potente ottenere aiuti e appoggi dalle città vicine, ostili a Verona. Cosí accadde, all’estremo geografico opposto del territorio veronese, per la Gardesana meridionale e per la zona posta al confine con il distretto di Mantova: Monzambano, Peschiera e piú a sud Villimpenta ed altre località poste sul fiume Tione furono ‘basi’ della pars Comitum non meno di S. Bonifacio. Per molti decenni, dunque, tutta la parte orientale del distretto veronese sfuggí al controllo della città e fu amministrata dagli ‘estrinseci’, dai fuorusciti veronesi legati alla pars Comitum che almeno in qualche periodo si organizzarono come vero e proprio comune estrinseco, con cariche, burocrazia, organizzazione fiscale.
In questo quadro, pure gli assetti economici e sociali di Soave e del suo territorio risultarono sconvolti, anche se gli indizi documentari sui quali possiamo basarci sono, ancora una volta, piuttosto modesti. Non è però un caso che compaiano fra i proprietari fondiari di Soave esponenti di eminenti famiglie cittadine, in piú casi di tradizione militare e riconducibili con maggiore o minore sicurezza alla pars Comitum. Tra questi figurano Ezzelino Zerli, che facendo testamento nel 1239 aveva lasciato i suoi beni in Soave alla moglie Beata, che ne prende possesso nel 1245-46; “Girardus Mantuanus”, esponente di una famiglia legata ai conti, proprietaria di una casa in Verona nella quale i consoli del comune, prima della costruzione del palazzo comunale del 1194, tenevano placito; e ancora Fino Frisoni, i figli di Ardizzone da Broilo (fra i quali Iacopo, il celebre giurista autore della Summa feudorum), gli eredi di Ribaldo (dal quale prenderà nome la famiglia Ribaldi, proprietaria di una torre in piazza Erbe e titolare di un hospicium), gli eredi di Corradino di Illasi, il cambiatore Negruccio Polmoni, gli Spongati, i “de Auchis”. Non manca però neppure qualche esponente della piccola aristocrazia del contado. Uno di costoro è Negro di Carbogno, appartenente ad una famiglia originaria di Montecchia di Crosara, il cui capostipite è definito talvolta nelle fonti “Carbognus de Suavo”. E già nei primissimi decenni del secolo si fanno luce, attraverso percorsi che non conosciamo, famiglie di estrazione locale come i Guastaverza, destinati assai piú tardi ad un futuro prestigioso – come mercanti e poi come patrizi – nella società veronese (del Quattrocento e Cinquecento).

L’età comunale e le lotte di fazione: ascesa e declino della famiglia Greppi (1170-1270 c.)

Ma è soprattutto nelle vicende della famiglia Greppi che si riannodano e si incarnano, nel decisivo secolo fra il 1170/80 e il 1270 circa, le vicende politiche ed istituzionali di Soave, segnandole in modo irreversibile. Si tratta dei discendenti di un “Grepus”, morto fra il 1173 e il 1178. “Grepus” ebbe tre figli, e di tutti e tre è possibile riconoscere – nonostante la scarsezza della documentazione – una posizione molto autorevole nella società cittadina. Ad Ottolino di Greppo si è già accennato: negli anni Sessanta è membro della “curia parium” del capitolo della cattedrale e compare tra i consorti di Soave. A misurare il suo duraturo prestigio in Verona, basta la carica di console del comune ricoperta due volte, in anni delicati come il 1184 e il 1187: segno indubbio di un pieno inserimento nella élite cittadina. Ma gli interessi politici ed economici di Ottolino e dei suoi fratelli erano ben piú ampi, e si intrecciavano con le strategie politiche delle massime famiglie cittadine. Nel giugno 1183, il “nobilis vir Ottolinus videlicet quondam Greppi filius de civitate Verona” ottiene dal vescovo di Trento Salomone (recente acquirente del castello di Pradaglia in val Lagarina) una grossa somma a titolo di liquidazione dei diritti che vantava appunto su tale fortificazione, avendoli ricevuti da tale “domina Galsigna”. All’atto, stipulato in Trento, è presente un “Trenzanus de Verona” che è quasi certamente da identificare in Terzano Pressoaldi, anch’egli consorte di Soave e vassallo dei Turrisendi. Nel 1185, lo stesso Ottolino è testimone (probabilmente insieme col terzo fratello, Greco) ad un importante atto compiuto – “in civitate Verone sub porticu domus suprascripti Enregeti de Grepo” – appunto dal fratello Enrigeto, che con la moglie Gasdiola dota (mediante una donazione a tale Guido che agisce per conto dell’ente) di un piú che discreto patrimonio (50 campi circostanti l’ospedale stesso, altri beni fondiari posti anche in altre località del territorio veronese, masserizie ad animali) l’ospedale di S. Maria e S. Zeno di Ossenigo in Valdadige. Di questo ente i coniugi debbono essere “patroni et domini” vita natural durante, ma “post eorum mortem nullus suorum heredum debeat esse patronus et dominus suprascripti hospitalis”. Enrigeto aveva acquistato beni (forse cospicui) ad Ossenigo una decina di anni prima. Indirettamente, queste circostanze ricollegano Enrigeto e gli altri figli di “Grepus”, alla importante famiglia capitaneale dei Turrisendi, alla quale il vescovo di Trento aveva infeudato il castello di Ossenigo. Dal terzo dei tre fratelli, “Grecus quondam Grepi”, discese infine il ramo della consorteria, destinato a possedere nel Duecento il castello di Soave, e non è forse un caso che il primo documento noto relativo a Greco lo attesti presente patrimonialmente proprio a Soave, ove cede al monastero di S. Giorgio in Braida terre in precedenza avute in feudo (7 febbraio 1178). Fu soprattutto questo ramo dei Greppi, e la sua fortuna duecentesca, ad essere oggetto del vecchio ma ancora valido studio del Simeoni che si è già avuta occasione di citare; uno studio peraltro che era basato in sostanza su un solo documento, il testamento di Filippo Greppi (1237). Anche per il Duecento, è possibile oggi integrare quella ricerca sulla base di una documentazione un po’ piú ricca; anche se ricostruire una genealogia completa resta difficile, e i rapporti con il territorio di Soave non cosí ben lumeggiati come si desidererebbe.
La presenza dei discendenti di “Grepus” (definiti nelle fonti notarili “de Grepo”, ma piú spesso – già sulla soglia del Duecento – “de Grepis”: segno di una coscienza di stirpe abbastanza precocemente acquisita) nelle cariche pubbliche del comune di Verona è nel primo quarto del Duecento modesta, ma non irrilevante. Nel 1203 Bonifacino Greppi è console di giustizia del comune, e nello stesso anno fa parte del ristretto gruppo di cives che giura di rispettare un patto quinquennale con il comune di Cremona; nel 1214 e nel 1216 è estimatore del comune. Guglielmo Greppi è console nel 1220, Corrado Greppi nel 1221, il giudice Orandino nel 1226, dunque in anni nei quali la situazione politica è ancora in bilico fra le due fazioni. Non manca qualche ulteriore presenza nel palazzo del comune, in veste di testimoni.
Negli anni Trenta, con la definitiva affermazione della dominazione ezzeliniana e l’inasprirsi della lotta politica, anche i Greppi furono probabilmente costretti a schierarsi. Alcuni aderirono certamente al partito dei conti. Filippo, attivo dai primi decenni del secolo, nel 1235 è detto “Philipus de Suavio”, ed è individuato dunque almeno in qualche occasione dalla località nella quale probabilmente esercitava diritti pubblici, non dal cognome. Negli stessi anni appare militare attivamente con Rizzardo di S. Bonifacio, al quale consegna il castello di Castion presso Garda; per quel che può significare questo dato, egli risiede inoltre nella contrada di S. Eufemia, in un’area della città che è una roccaforte dell’aristocrazia ‘guelfa’ (ad es. i Lendinara). Quest’ultima è ovviamente una circostanza solo indicativa, giacché il nesso tra residenza urbana e opzioni politiche non può certamente esser considerato stringente. D’altra parte, non tutta la famiglia Greppi si schierò con i S. Bonifacio; nel 1244 anzi, il giudice Orandino Greppi (che è citato fra i primissimi cives in un consiglio cittadino del 1238) fu – in piena dominazione ezzeliniana – giudice del comune di Verona per la conferma dei contratti dei minori e delle chiese, e altri Greppi figurano di quando in quando in città. Una volta di piú, appare semplicistico e rischioso considerare univoca e compatta, e definita una volta per tutte, l’appartenenza di una domus ad un ‘partito’ politico, che a sua volta è mutevole ed articolato nel tempo.
Anche il già ricordato testamento di Filippo Greppi (1237) rinvia certamente a solidi legami sociali con esponenti autorevoli della élite cittadina, ma non permette di inquadrare in modo irreversibile e rigido il testatore dal punto di vista dell’appartenenza politica. Filippo lascia i propri diritti sul castello – diritti solo parziali: “locus castri Soapi pro mea parte et pes turris qui est supra curubium Soapis” – ai figli maschi, Deodato (o Didato) ed Ezzelino, escludendo le figlie, e in subordine al fratello Giovanni. I figli non potranno alienare o cedere in pegno o in comodato questi diritti, e neppure “habitacionem alicui concedere predictorum locorum silicet partis mei [cosí nell’originale] castri” se non al fratello Giovanni e ai suoi figli maschi, e a Corradino Greppi e ai suoi figli maschi, e al “dominus Pecorarius de Paula et eius filiis Thomasino [de Paula, nipote del citato Pecorario] et eius filiis masculis”. Orbene il causidico Pecorario “de Paula” è nel 1244, in piena dominazione ezzeliniana, presente in Verona e con un ruolo politico di assoluto prestigio, quello di “advocatus Sancti Zenonis”. Filippo si affida poi al discernimento di alcuni esecutori testamentari, che opereranno insieme con la moglie (“mea uxor Otabella”), e che gratifica di impegnative parole: “meorum fratrum dominorum Rodolfini de Caceta et Iohannis de domina Savia et Balçanelli de Migolis [‘Rigolis’ nell’edizione Simeoni]”. Fra costoro, Balzanello Migola sarà un fiero oppositore di Ezzelino (fuoruscito a Venezia – nel 1257 – e giustiziato a Verona nel 1262); ma degli altri non sono noti gli orientamenti politici.
Per qualificare la mentalità di Filippo Greppi, il suo essere uomo di onore e di guerra, interessa piuttosto l’uso del vocabolo fratres. Può anche darsi che vada inteso, nel luogo sopra citato, nel senso proprio e che Filippo Greppi si riferisca qui ai suoi fratelli di sangue. Ma piú avanti nel testamento egli dona i diritti su un manso di Villafranca Veronese “fratri meo Gabrieli de Spallis”, e ciò rinvia a mio avviso a legami di solidarietà (politica, sociale?) espressi appunto con il vocabolo “frater”, e validi anche per i “de Paula”, il “de Caceta”, il Migola. Del resto, tutte le persone citate o loro strettissimi congiunti – Pecorario e Tommasino “de Paula”, Corradino Greppi, Gabriele “de Spallis”, Giovanni “de domina Savia”, il figlio di Rodolfino “de Caceta”, oltre Bonaventura di Rialto da Mezzane e agli Enverardi, in casa dei quali il testamento è rogato) sono presenti di persona.
Non è nota la data di morte di Filippo Greppi; per gli anni successivi, è possibile individuare qualche scarso riferimento alla presenza patrimoniale fra Soave e Caldiero, nella parte di territorio controllata dai S. Bonifacio e dal loro partito. Forse, alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta – gli anni del piú duro dominio ezzeliniano – la famiglia si ricompattò provvisoriamente nelle scelte politiche, visto che nel 1254 solo un Greppi, Enrigeto, figura in Verona. Qualcuno, come Nicola figlio di Corradino Greppi e suo figlio Bono, era stato incarcerato nel 1253.

Gli anni Sessanta, con l’affermazione di Mastino della Scala e della signoria scaligera, segnarono per i Greppi politicamente piú compromessi il momento di una definitiva resa dei conti. Al momento del rientro in città dei fuorusciti ‘guelfi’, dopo la morte di Ezzelino da Romano (ottobre 1259), un Alberto Greppi, del quale non è stato sinora possibile stabilire la paternità, compare come abate eletto del monastero di S. Zeno nell’atto con il quale un cospicuo gruppo di milites veronesi, fra i quali Mastino della Scala, prende possesso a nome del comune di Verona del castello di Gazzo Veronese, e nonostante i contrasti con un altro abate eletto, mantenne il governo del monastero sino al 1268-69. Proprio in quell’anno, si ebbero in Verona disordini politici suscitati dal partito antiscaligero, nei quali furono coinvolti certamente alcuni membri della famiglia. Per costoro, nonostante nessun esponente dei Greppi compaia nella lista dei sostenitori della pars Comitum banditi nel 1269, fu quello il momento della definitiva crisi delle fortune politiche.
La prima conseguenza di questi fatti fu nel 1270 la stipula – fra un Alberto Greppi (forse lo stesso ex abate?) “et sui fratres de Soavio et alie persone” da un lato, e il podestà di Verona dall’altro – di un accordo, citato ma non riportato per esteso negli statuti del comune di Verona promulgati pochi anni piú tardi (nel 1276), che portò all’acquisizione da parte del comune del controllo del castello. Ciò non comportò che negli anni Settanta, cioè nel decennio della definitiva affermazione scaligera, la famiglia Greppi scomparisse del tutto dalla scena pubblica di Verona: nel 1275 Tommaso Greppi ricoprí la carica di estimatore del comune di Verona. Tuttavia, il ramo principale della famiglia fu probabilmente indotto a rifugiarsi a Soave, come dimostra l’analisi minuta di alcuni documenti. Nell’aprile 1269, in una situazione politica tutt’altro che tranquilla, Iacopina vedova di Giovanni Greppi poteva risiedere senza problemi nella casa del marito, “in domo heredum domini Iohannis de Grepis…in guaita Sancti Zilii sive Sancti Benedicti”; nel 1272 e nel 1274 Ezzelino e Deodato Greppi, figli ed eredi di Filippo – coloro ai quali il padre aveva lasciato in eredità nel suo testamento del 1237 i diritti sul castello – sono ancora presenti in Verona (ma per locare beni di Soave). Ma dal 1276 lo stesso Deodato è personalmente attivo invece a Soave, ove un “viator” del comune lo mette in possesso di beni fondiari. Nel febbraio 1278 – pochissimi mesi dopo l’inizio della signoria di Alberto della Scala – è la volta di una figlia di Filippo Greppi ad entrare in possesso di case, mansi e mulini in Soave; e nello stesso anno è a Soave che Agnese moglie di Deodato Greppi fa testamento “in domo dominorum Ycerini et Deodati de Grepis”, mostrando invero larga disponibilità di beni oltre che perfetta conoscenza e grande familiarità con numerose esperienze religiose ed istituzioni ecclesiastiche di Verona, Legnago e Soave (alla chiesa di S. Lorenzo è legata una piccola somma “quando aptabitur”, quando sarà ricostruita o riattata). Sempre da Soave, Deodato Greppi a sua volta affitta beni ubicati ad Illasi, ed è significativamente appellato, nella documentazione di questi anni, anche come “Deodatus de Suave”.
Si ha dunque l’impressione di una emarginazione, di un ritrarsi nell’ambiente avito e consueto (nel quale, appena una generazione prima, i Greppi possedevano un castello ed esercitavano prerogative pubbliche), non certo di una famiglia che subisca una dura repressione. Analogo percorso di emarginazione, forse di auto-emarginazione, sembrano seguire del resto altre famiglie autorevoli in età comunale, come i Fidenzi e i discendenti di “dominus Lancius de Cereta”, ambedue radicate patrimonialmente nella zona orientale del territorio veronese, fra Colognola e Soave, e legate ai Greppi. Qualche altro esponente della famiglia, invece, dovette esulare forse definitivamente, come documenta appunto il caso di Alberto Greppi. Se resta incerta l’attendibilità della notizia, data da una cronaca mantovana, che egli sia stato coinvolto nell’assassinio di Mastino I nel 1277 e sia stato “mortuus in contione Verone” durante la repressione susseguente, insieme con Pulcinella dalle Carceri, è significativo che nel gennaio 1279 il “dominus Albertus de Soave” si trovi fuoruscito a Vicenza al cospetto del vescovo Bernardo Nicelli, impegnato a fornire garanzie a Guglielmo da Telve (appartenente ad una famiglia signorile della Valsugana) “per idoneos homines de Verona et Veronense” in ottemperanza ad una sentenza recente: ciò è indizio di ostilità politica evidente al partito e al regime allora al potere in Verona, considerati i rapporti tesissimi fra il comune di Padova (cui Vicenza era soggetta) e la signoria scaligera.
Anche nella piena età scaligera, nel secolo successivo, sono percepibili le tracce di questo disagio vissuto dalle vecchie famiglie dell’aristocrazia comunale, soppiantate da chi gode il favore del signore. E per quel poco che se ne sa finora si ha la sensazione di un ulteriore lento declino, di una sorta di crepuscolo dei Greppi. Di quando in quando esponenti della famiglia ricompaiono sulla scena pubblica della città, in posizione certo marginale ma talvolta non priva di qualche prestigio, e occasionalmente contigua al potere scaligero. Molto piú tardi, alcuni esponenti della famiglia sono forse ancora riconoscibili a Soave, come quel “ser Grepus quondam ser Zenonis de dicta terra” la cui moglie Benvenuta nel 1409 permuta beni a Soave, tra i quali una casa posta “in contrata quasi Platee sub ripis castri dicte terre”. Se si tratta, come appare probabile, di un discendente dei Greppi, si deve pensare dunque ad una scomparsa o illanguidimento della tradizione cognominale. La parola fine alle vicende della famiglia Greppi è comunque probabilmente posta, fra Tre e Quattrocento, dal matrimonio di Lucia e di Aquilina Greppi (figlie, o nipoti, di Angela Bonamenti e di Bartolomeo “de Grepa”) con Federico e Iacopo Cavalli, figli di Corrado Cavalli, appartenenti ad un ramo della celebre famiglia che nella tarda età scaligera aveva consolidato la sua presenza fondiaria nella parte orientale del distretto veronese, largamente usurpando i beni dell’abbazia di Villanova.

Ma a parte queste vicende, che ci portano molto avanti nel tempo, per quanto concerne la storia di Soave l’acquisizione definitiva e irreversibile del castello da parte del comune di Verona significa l’avvio di una fase radicalmente nuova. E dell’importanza della modificazione allora verificatasi del quadro politico ed istituzionale relativo a Soave i contemporanei furono ben consapevoli, Non per caso risalgono proprio al 1271 le trascrizioni notarili in copia autentica di diversi ‘pezzi’ importantissimi della documentazione relativa ai diritti decimali goduti su Soave nel XII secolo dalle prestigiose famiglie cittadine che abbiamo a suo luogo citate (investiture del 1147, 1160, 1180): senza queste trascrizioni, dunque, sapremmo molte meno cose anche della storia precedente di Soave. In alcuni casi, a richiedere la trascrizione – evidentemente per tutelare i propri residui diritti in Soave – fu Nicola del fu Galvagno Turrisendi, uno dei pochi superstiti in Verona della rovina politica della sua famiglia: e non vanno dimenticati a questo riguardo i legami politici che un secolo prima avevano portato Turrisendi e Greppi, insieme, in val d’Adige, fra Ossenigo e Trento.

Soave veronese e scaligera (1270-1374)

Dopo la prima redazione del 1228, messa insieme dal notaio Guglielmo Calvo, un nuovo – ben piú organico – testo degli statuti del comune di Verona fu promulgato nel 1276, e fittamente integrato negli anni successivi con additiones e correzioni. Queste norme (sia la stesura originaria, sia le addizioni) permettono di seguire con una certa puntualità i provvedimenti adottati dal comune di Verona e da Alberto della Scala, signore della città dal 1277, per il riassetto, l’organizzazione, la difesa della parte orientale del distretto veronese, al confine con il Vicentino (allora governato dall’ostile Padova). Le vicende specifiche di Soave vanno infatti inserite in un complesso di provvedimenti piú ampio, che riguarda anche la val d’Illasi e la val d’Alpone: non a caso il testo dello statuto che ratifica l’accordo sottoscritto dal podestà Gerardino Pio con Alberto Greppi per il “castrum Soavii” è identico a quello relativo agli accordi per il castello di Illasi (già in mano di Uberto della Tavola maggiore), per Porcile, e per Bolca e Castelvero (già in mano di “dominus Meçagonella de domino Aycho”). In effetti Illasi e Soave – insieme coi castelli di Legnago, Ostiglia, Peschiera e Malcesine, cioè con quattro castelli di confine – sono assoggettati secondo lo statuto del 1276 ad un regime particolare, diverso da altre fortificazioni, per ciò che concerne la scelta del cittadino veronese che deve andare a comandare la guarnigione. Nel 1277, appena un anno dopo la promulgazione dello statuto, una prontissima addizione li cita ancora (insieme con Gazzo e Peschiera) come castelli che devono essere “custoditi ad voluntatem domini Alberti de Scala”, il signore appena eletto. Piú che le norme – di valore simbolico ed apotropaico – che obbligano ogni podestà a far lavorare 1000 operai per dieci giorni “ad destruendum mottam Sancti Bonifacii et fossas castri et cerche Arcullarum”, neanche si trattasse della torre di Babele; e piú che le norme (pur assai interessanti, perché provano la capacità del comune di Verona di assumere immediatamente un’ottica di gestione complessiva del territorio) relative alla manutenzione del fossato Masera e del fossato Sale, che coinvolgono gli uomini del comune di Soave; e piú – persino – della redistribuzione ai propri amici e collaboratori (fra i quali Bonifacio della Scala e i Mambrotti – è la famiglia di un giudice importante) delle terre confiscate ai sostenitori dei S. Bonifacio, piú di tutte queste cose è in quel momento la difesa e la sicurezza del territorio contro Vicenza (allora governata dall’ostile comune di Padova) la massima preoccupazione di Alberto della Scala e del governo cittadino. Nel 1279, egli fece di persona un sopralluogo a Soave, insieme col podestà e coi notai dei gastaldioni delle arti e del podestà. Nell’autunno di quell’anno furono eseguiti molti lavori, e d’un certo impegno: fu costruito un imprecisato “hedeficium” all’interno del castello e furono riattate case all’interno della fortezza, e forse anche fuori, ed una costruzione definita senz’altri appellativi “domus Soapi”. Forse, in conseguenza di questi lavori, l’anno successivo (1280) Soave poté sfuggire ai danni piú gravi portati dall’esercito padovano, che nel maggio si accampò a Villanova di S. Bonifacio e distrusse tutti i villaggi della fascia pedecollinare, da Illasi alla “Turris Vagi” a S. Martino Buonalbergo.
La funzione strategica di Soave, e del suo castello, posto a difesa del ponte di Villanova sull’Alpone (cosí spesso citato dai cronisti duecenteschi e trecenteschi), ebbe dunque un definitivo riconoscimento, ben prima degli interventi tardotrecenteschi di Cansignorio della Scala. Ad esempio, dal privilegio del 1299 con il quale Alberto della Scala concede una esenzione fiscale al comune rurale di S. Bonifacio, si ha la precisa percezione del fatto che il castello di Soave era divenuto punto di riferimento per l’intera zona orientale del distretto veronese: il testo afferma che “homines et persone dicte ville Sancti Bonifacii cum eorum famulis, bestiis et rebus ad dictum castrum Suapis vel Suavii possint et debeant habere recursum pro suo beneplacito voluntatis”, sancendo in qualche modo un ‘diritto-dovere di rifugio. L’iscrizione (riprodotta in questo saggio) del 1321, che rinvia in un modo o nell’altro ad una guarnigione presente in loco, è poi di per sé una prova del ruolo svolto da Soave. Si può ricordare ancora che un cronista che racconta le incursioni di Vinciguerra Sanbonifacio contro Verona, a capo di un esercito padovano e di guelfi veronesi nel 1313, definisce Soave ed Illasi “gemina arx”, due rocche gemelle: definizione che ha una sua suggestiva plausibilità se si pensa ad un punto d’osservazione posto in pianura, e in lontananza. E infine, il cancelliere e cronista veneziano Iacopo Piacentino, nella sua narrazione dedicata alla guerra veneto-fiorentina contro Mastino II della Scala, cita Soave alla data del 1338 – quando la rocca resistette agli attacchi, mentre l’abitato sottostante fu come voleva la prassi delle guerre dell’epoca diligentemente saccheggiato – come un “burgus… qui tenebatur pro dominis de la Scala et erat fossis et refossis ac valis circundatus ac munitus”, quindi non murato ma comunque validamente protetto. Nel corso della stessa guerra, almeno mille “homines locorum et villarum de Suave et Villanova, de Sancto Bonifatio et de partibus convicinis” cercarono – malamente armati – di fronteggiare i cavalieri dell’esercito della lega antiscaligera comandato da Rolando Rossi ed accampato a Montebello. Fu una strage, e almeno 400 villani furono uccisi.

Modificazioni dell’insediamento nel XII-XIII secolo

Prima di dare qualche cenno ulteriore sugli interventi fortificatorii di Cansignorio della Scala, che incidono profondamente sulla fisionomia dell’abitato di Soave, è utile riprendere rapidamente in esame, per uno sguardo d’insieme, le scarse indicazioni che le fonti ci forniscono rispetto all’evoluzione urbanistica del castello e del borgo nei secoli XII e XIII.
Come si ricorderà, l’espressione “alto Suave” in alternativa a “Suave” ad indicare il centro demico risale all’alto medioevo. Nel secolo XII, “alto Suave” sembra indicare però la denominazione dell’intero territorio, indifferenziatamentre dal piú frequente “in loco et fundo Suave”, “in loco Soavis”: in un atto del 1146 la località “Casarupta”, certamente ubicata “in valle” (1149: “in loco ubi dicitur a Casarupta in valle iuxta terram Sancti Viti”) è ubicata “in loco et fundo Alto Suave”, ma l’atto è redatto “in loco Suave”: ciò significa che questo notaio aveva la percezione dell’esistenza di un luogo definibile “Soave”, ma per ubicare un appezzamento preferisce la denominazione per cosí dire tradizionale, quella che si riferisce appunto all'”Alto Suave”). Proprio in tale occasione anche il Giovanni, prete e rettore della chiesa di S. Maria della Bassanella, è detto “de loco alto Suave”.
In generale, negli scarsi documenti del sec. XII si intuisce comunque che una certa ampiezza di spazi caratterizzava l’insediamento, in questa ridente bassa vallata solcata da un Tramigna già ben canalizzato (l’uso del termine “vasum” – che è ripetuto nelle fonti, allude ad un alveo ben definito, in qualche modo artificiale e governato). Lo deduciamo da diversi indizi. Un appezzamanto definito “prope castrum” è distinto da “Casarupta”, tanto che la chiesa di S. Maria della Bassanella ritiene conveniente, per compattare i propri possessi, operare una permuta. Già attorno alla metà del secolo, alcuni coloni risiedono nelle immediate vicinanze della chiesa e coltivano una “clausura” cui si contrappone una terra de campagna il cui regime contrattuale è diverso. L’addensamento degli edifici, e la creazione di un centro dotato di una sua fisionomia, fu certamente un fenomeno di estrema lentezza, del quale nel XII e XIII secolo, e con la documentazione che è in nostra disponibilità, si intravvedono solo scarse tracce. Si è già accennato del resto al fatto che i redattori dell’elenco delle ville soggette al comune di Verona a fine XII secolo percepiscono la consistenza dell’insediamento del borgo Bassano, presso la chiesa della Bassanella, ma non se la sentono di attribuire ad esso una dignità di “villa” e optano per l’accorpamento col centro imperniato sul castello (“Soave cum ‘Bossono'”).
Del processo di infittimento, di costipazione dell’abitato – un processo di lunghissima durata – sono percepibili non gli esiti ultimi, ma qualche segnale d’una fase relativamente piú avanzata, di metà Duecento. Neanche allora infatti la villa di Soave era formata da case serrate e vicine, ma costituiva un insediamento a maglie larghe, che ospitava al proprio interno campi coltivati. Lo prova ad esempio il fatto che nel 1244 è ubicato “in villa Soavi” un arativo che si trova “in loco ubi dicitur Covergnedum”. Ma ancora nel 1278 diversi appezzamenti “masivi”, sui quali sorgeva una casa con orto e annessi alla quale faceva capo un complesso fondiario, sono collocati “in villa”, in diverse località “super ripam castri”, “ante portam castri”, “in ora Covergneti”, “in ora Bassani”. “Apud platheam”, lungo il Tramigna, si trova invece un appezzamento che ospita quattro “clusi” edificati. Non si sa nulla di preciso, purtroppo, su un importante evento attribuito dalla tradizione storiografica ai primi del Trecento, cioè il trasferimento della pieve di S. Lorenzo all’interno del borgo; la memoria della plebs vetus era ancora viva a metà Cinquecento, quando l’edificio (sito lungo la strada per Monteforte) era diroccato (“pessime se habet”).
In questi decenni comunque la microtoponomastica relativa all’abitato e alle sue immediate vicinanze si arricchisce e la documentazione d’archivio registra il fenomeno. Nel pieno Duecento, parecchie abitazioni si trovano “ad pontem”, presso il ponte in pietra sul Tramigna. Sempre vicino al Tramigna e al ponte che lo scavalcava si trovava un rilievo probabilmente fortificato, detto “mota” (“ab alio capite mota et Tremegna”), presso il quale era anche un mulino (ubicato “penes motam et pontem”), erede dei mulini da secoli esistenti (e destinati a una lunga sopravvivenza). Il termine “mota” rinvia in effetti a due ambiti semantici, quello di una sopraelevazione rispetto all’area circostante e quello (connesso) di difesa, di apprestamento militare evidentemente funzionali all’attraversamento del corso d’acqua e alla sua utilizzazione ai fini molitori. Forse si tratta di quello stesso rilievo che in altre occasioni è definito “tomba”, ‘piccola altura’, affiancata da case (“in dicta villa iuxta tombam”). È anche citato un “curubium”, anch’esso confinante con il Tramigna, sul quale si trova il piede di torre di pertinenza dei Greppi, citato nel testamento di Filippo Greppi (1237). Alcuni appezzamenti casalivi si trovano anche “in ora Poçe” e “subtus castrum”; “prope castrum” si trovava una “ora Zochee”.
Allo stato attuale delle ricerche, risulta comunque difficile precisare tempi e modi dell’assestamento del centro abitato. Inoltre, occorre prudenza nell’interpretare i dati successivi alla fortificazione del borgo (seconda metà del Trecento), giacché il vocabolo “castrum” indica allora, probabilmente, la cerchia murata nel suo complesso: ai primi del Quattrocento, per esempio, sono citate diverse case “in castro Suapis in contrata de le Cengie”.

Da Cansignorio della Scala alla dominazione veneziana

Secondo uno dei continuatori trecenteschi del Chronicon veronense di Parisio da Cerea, già nel 1363 Cansignorio della Scala “fecit fieri” oltre che i noti interventi nei palazzi scaligeri di Verona “plura notabilia, Suapem, Lasizium”; e la fonte non è inattendibile, trattandosi di un codice non privo di annotazioni originali. Non è escluso dunque che debba essere lievemente anticipato l’inizio dell’intervento, che certo fu importante, e che ha un riferimento cronologico sicuro nell’epigrafe con la sigla “CS” del 1369. Dei lavori di quell’anno qualche sparso documento d’archivio sembrerebbe dare conferme negli anni immediatamente successivi: nel dicembre 1373 (nella locazione d’una casa al potentissimo fattore di Cansignorio, Tommaso Pellegrini) si cita il “teraium muri Suapis”, che a dire il vero poteva anche non essere una novità; ma l’anno dopo si menziona la porta dell’Aquila, e si parla della “terra de Suape” (scegliendo non a caso un vocabolo – terra – che indica nelle fonti del tardo medioevo un qualcosa di piú del semplice villaggio rurale) usando la locuzione “intra cintam novam dicte terre penes plateam”. Sulla stessa piazza, qualche anno dopo, è attestata l’esistenza della “lapis piscium”, il luogo pubblico deputato alla funzione di mercato del pesce (verosimilmente, catturato nelle acque del Tramigna, o dell’Alpone): “in Suape penes lapidem a piscibus situm super platea dicte terre de Suape”. Sono indizi piccoli, ma importanti della ‘crescita’ istituzionale di Soave, sede – come è notissimo – di capitaniato nel 1361 e 1375; è una ‘vita civile’ che in qualche misura prende forma. Ed è da credere che l’apposizione dell’epigrafe che segnalava come – mentre il sedime era stato fornito dal comune di Soave – la costruzione della “domus comunis Soapis” fosse stata eretta a spese di 20 comunità del territorio sia stata motivo di grandissima soddisfazione per il ceto dirigente locale, non meno che per il capitano, Pietro Montagna.

Soave nel Quattrocento, fra Venezia e Verona

La congiuntura di fine secolo, col passaggio dalla dominazione scaligera ai piú vasti e compositi ‘stati regionali’ visconteo prima e veneziano poi, fu difficile anche per Soave. Qualche dato significativo è possibile reperire per la peste dell’anno 1400, che colpí duramente: il comune locale chiese e ottenne una riduzione di quasi il 50% della imposizione del sale. Subito dopo vi fu la guerra conseguente alla morte di Giangaleazzo Visconti (1402) e alla precaria conquista di Verona e del suo distretto da parte dei Carraresi (aprile 1404), che coinvolse anche la repubblica veneta. Nel corso delle operazioni militari che videro schierati su fronti opposti il signore di Padova, Francesco Novello da Carrara, e Venezia (a lungo – almeno sino alla dedizione di Vicenza del 1404 – incerta sulle prospettive di espansione in Terraferma), si giunse il 19 giugno 1405 – pochi giorni prima della dedizione di Verona – alla conquista di Soave da parte degli eserciti veneziani. Secondo una cronaca dell’epoca, in quel giorno “entrò la gente de Veneziani in Soave con trattato de villani”: vale a dire a seguito di un accordo con la comunità locale, non diversamente da quanto era accaduto, nei giorni immediatamente precedenti, per altri comuni del territorio veronese. Luchino da Saluzzo, che era in Soave con 60 lanze (dunque almeno 180-200 soldati), “fugí in roccha con alcuni compagni a piedi, e perdete cavalli e careazi [‘carriaggi’]”, ma si arrese il giorno dopo cedendo la fortificazione ai Veneziani. Non mancò qualche colpo di artiglieria, le cui conseguenze restarono a lungo visibili: “et la torre principal è busada, qual par fin ozi, per bombarde al tempo fu presa”, ricorda il Sanudo descrivendo la rocca ottant’anni piú tardi. Il giorno dopo fu preso il castello di Illasi; la strada di Verona era definitivamente aperta.
Il governo veneziano non introdusse modifiche incisive nell’assetto istituzionale del territorio veronese, e fu parco di decisioni (e di risorse) anche a proposito della manutenzione delle fortificazioni. Proprio a Soave vi fu tuttavia un modesto intervento, per il completamento delle mura; nel 1413 il Senato veneto deliberò di far completare la fortificazione di rifugio per le popolazioni rurali (“bastita”) che Nicola Cavalli aveva cominciato a far costruire, al tempo della incursione degli Ungheresi comandati da Pippo Spano (1411). Lo si fece anche per tenere separati (come ovunque) due gruppi sociali che non si amavano per niente, cioè i contadini e i soldati della guarnigione: “comittatur ipsis rectoribus [Verone] quod expleri faciant illam bastitam quam principiavit dominus Nicolaus de Caballis tempore hungarorum ut in omni casu armigeri nostri et gentes nostre a rusticis stent separate”.
Il castello di Soave rientrò infatti, sin dai primissimi anni del Quattrocento, fra le fortificazioni del territorio veronese presidiate in permanenza: cosa non del tutto scontata, perché non si trattava di una fortificazione di confine, e un certo numero di fortezze nei territori di Vicenza e di Padova vennero disattivate. A Soave invece furono presenti – forse ad intermittenza – sia un capitano (appartenente al patriziato della città lagunare), sia un castellano (che poteva anche non essere veneziano). Il primo capitano di Soave fu (almeno dal 1411 al 1431) il già citato Nicola Cavalli che era il figlio del celebre Iacopo Cavalli, il capitano accolto nel patriziato veneto. Una scelta significativa, quella del governo veneto: da un lato, essa dimostra immediatamente come gli interessi privati – e quelli dei Cavalli nella zona erano molto forti, anche se allo stato attuale delle ricerche è difficile dire come si distribuisse il patrimonio dell’articolata consorteria – non fossero estranei alle designazioni a queste cariche; dall’altro, conferma che tra i veneziani le competenze di carattere militare latitavano alquanto (negli stessi anni, il governo lagunare si serví di altri esperti militari, che già avevano servito gli Scaligeri e i Visconti, come Fregnano da Sesso). Qualche tempo dopo, il capitaniato fu sottratto al Cavalli, certamente in conseguenza della scelta di campo filoviscontea fatta almeno da alcuni rami. Ma il fatto, sopra ricordato, che la carica di capitano di Soave continuasse ad essere affidata, in genere, a patrizi veneziani (non a semplici cittadini veneziani), dimostra che le si annetteva una certa importanza. Del resto, Soave fu teatro di operazioni militari anche in occasione della guerra fra Venezia e Filippo Maria Visconti, nel 1439.
In conseguenza di tali scelte, in tempo di pace non mancarono nel corso del Quattrocento neppure a Soave – come in tutte le località nelle quali si trovarono gomito a gomito un magistrato veneziano e un vicario o podestà inviato dal comune di Verona – frizioni e contrasti anche violenti fra le due autorità; e non mancò di innescarsi il classico meccanismo, secondo il quale il comune rurale si appoggiava politicamente al capitano veneziano, in funzione anti-veronese. Costui doveva in teoria limitarsi alla custodia della rocca, senza ingerirsi in questioni civili e tanto meno penali: anche Marin Sanudo, nel 1483, ricorda che egli “non altro officio à se non scuoder le daie de la Signoria aspectante”, cioè i proventi fiscali spettanti a Venezia. Invece, la serie delle prevaricazioni vere o presunte contro le quali il comune di Verona protesta, lamentando anche estorsioni e indebiti prelievi, è lunghissima: si tratti di interventi in materia di fiscalità, oppure sul porto d’armi, o di ostacoli frapposti all’operato dei messi comunali (beroerii) di Verona, o ancora di questioni concernenti gli alloggiamenti dei militari di stanza in Soave. Ripetute tensioni si ebbero, in particolare, dopo il 1439, quando il comune cittadino in grazia della fedeltà mostrata a Venezia durante la guerra con Filippo Maria Visconti ottenne il privilegio “super unione membrorum”, che rafforzava la sua autorità sul distretto. Molti scontri si ebbero, ad esempio, riguardo all’imposizione del sale. Particolarmente violente, poi, furono le proteste veronesi nel 1474, quando il capitano veneziano fece fabbricare “in palatio” “unum tormentum ad torquendum homines, et illos torquet suo arbitrio, et ponit homines ad cathenam et berlinam suo arbitrio”: atti inauditi, che implicavano l’esercizio della giustizia penale, come prontamente fecero rilevare i veronesi; e la giustizia penale spettava al comune di Verona e al suo podestà. La cosa si ripeté nel 1501, e il capitano veneziano si giustificò cercando di far credere che aveva preso l’iniziativa solo a fini di deterrenza (“non a intention de punire, ma solum a terrore”). Ovviamente, il comune di Soave levò in ognuno di questi casi alte proteste: il massaro sostenne, infuriato assai, che “al corpo de Deo, questa consa non pò star cossì, e non se pò star sotto dui signori”.
Già da questa capacità di reazione è lecito dedurre – per quanto le notizie sulla vita politica locale siano scarse – una certa vitalità della élite locale; e non mancano prove di un assetto istituzionale abbastanza articolato e complesso. Il consiglio della comunità – alla cui convocazione sia il vicario veronese, sia il capitano veneziano potevano provvedere, presenziando poi alle sedute – viene infatti riformato in senso ‘democratico’ attorno al 1460. A partire da quella data, l’intera vicinia (l’assemblea dei capifamiglia) elegge un consiglio di 30 membri, che esprime un consiglio ristretto di 10 unità destinato a restare in carica per 4 mesi. In precedenza, i 10 membri uscenti del consiglio ristretto eleggevano i propri successori. Non meno significativa è poi la menzione di un “libro rosso del comune di Soave”, una raccolta (abbastanza cospicua) di privilegi, che conteneva, quanto meno, documenti tre-quattrocenteschi.
Di questa (relativa) robustezza degli ordinamenti della “buona terricciuola e bella” (cosí Luigi da Porto definisce Soave nelle sue Lettere storiche) si desidererebbe sapere di piú: ma le fonti sinora note sono insufficienti. Però, anche di una certa articolazione sociale e vivacità economica non mancano prove: si può citare la presenza del banco ebraico (riconducibile peraltro a vari fattori, e non solo all’importanza di Soave), oppure – in tutt’altro ambito – anche la comparsa a fine Quattrocento di due pur modesti insediamenti di ordini mendicanti. Si tratta del ben noto conventino domenicano (conventuale, non osservante) di S. Maria “de Fossa Dracono”, e del convento (anch’esso modesto) dei servi di Maria a S. Giorgio, attestato dal 1494. Nel Quattrocento, questa duplice presenza è una circostanza non del tutto comune per un piccolo borgo di un migliaio di abitanti o poco piú. Soave non era e non si sentiva un qualsiasi villaggio rurale, come tanti altri del distretto veronese.

Soave nella descrizione di Marin Sanudo (1483)

Per accennare brevemente, a conclusione di queste note, ad alcuni problemi di fondo della evoluzione socio-economica di Soave dal Quattrocento in poi, conviene tenere come filo conduttore la descrizione del castello, dell’abitato di Soave e del contesto paesaggistico-ambientale della valle del Tramigna, stesa dal giovane Marin Sanudo nel 1483 nel suo Itinerario per la Terraferma.
Soave è uno castello sopra uno collecino di monte, dal qual si parte do alle di muro, et va al pian et circonda la terra; è como Monzeleze; circonda le mura uno mìo; à 24 toresini con la torre dil castello; à do porte: la porta Veronese, zoè di soto, et di l’Aquila, ch’è quella di sora; fa fuogi 300. La chiesia cathedral è San Lorenzo, e ‘l palazo dove habita el capitanio, fabricado per li signori di la Scalla, è arente la porta di sora; à di sopra camere vintiquatro, de soto è in volto; à stalle bone, et el capitanio à ducati 11 al mese; non altro oficio à se non scuoder le daie di la Signoria aspectante. Lì è vicario veronese, dà rason in civil de lire 10 in giò; era Jacomo di Mafei tunc temporis. Ne è arente el castello una chiesia, pur sul monte, di Santa Maria. Et già quelli cittadini di Verona et gentilomeni veniciani di Cavali haveva el capetaniato, ma per alcuna cossa da fir per noi tasuta fu mandato capitanio veniciano, et vi era Fantin Bon de Felice fiol, che già fu capitanio, sed ad alia procedamus.
El castello ch’è como ho dito sopra el monte à tre centene di muro, si va di forteza in forteza; à porte di socorso bene apropriade, et la torre principal è busada, qual par fin ozi, per bombarde al tempo fu presa. Questa terra è amenissima, era una villa suavissima, et li signori tyrani di la Scalla che in quello tempo gubernava Verona a suavità di questo loco edificorono uno castello et nominò Soave. In questo tempo ancora fece fabricar et construir il castello di Marostega, ut postea videbimus.
Atorno di queste mure, ch’è alte, li va una aqua apelada la Tremegna, vien mìa tre luntan da una fontana viva dita Canzam. È distante Mantoa de qui mìa 20, et 12 fino a Cologna; mìa uno è Villa Bella, et poi do San Bonifacio, da la qual Julio conte et gli altri è nominadi conti di S. Bonifacio.
Come si vede, e come era ovvio, Sanudo (che era al seguito dei sindici inquisitori di Terraferma, una magistratura d’appello itinerante), non trascura l’assetto istituzionale – compreso il ‘condominio’ fra castellano veneziano e vicario veronese – e le vicende attraverso le quali si era giunti nel corso del Quattrocento a questa situazione; e ricorda pure le principali istituzioni ecclesiastiche del luogo, come la chiesa di S. Lorenzo (“cathedral”) e l’altra di S. Maria (si tratti della chiesa della Bassanella, o di S. Maria “de Fossa Dracono”). Ma una volta di piú la fortificazione è la prima realtà che colpisce l’osservatore esterno. Conformemente a quanto fa in altre occasioni, e anche in questo caso corredando la descrizione con un disegno, il giovane patrizio veneziano ricorda innanzitutto l’assetto materiale del castello (paragonandolo a quello di Monselice) e le sue strutture difensive, valutate con precisione. Pochi decenni piú tardi, in occasione della guerra della lega di Cambrai, fra il 1509 e il 1512 la linea difensiva Soave-Villanova (che sfruttava il corso del Tramigna e si imperniava soprattutto sulla fortificazione – dotata secondo Luigi da Porto di “muri grossissimi” – eretta in corrispondenza della strada Verona-Vicenza, ma che aveva a monte il suo punto di forza nella rocca di Soave) svolse ancora una volta un ruolo di un certo rilievo dal punto di vista militare, e fu teatro, ripetutamente, di scontri e scaramucce che il patrizio vicentino racconta nelle sue Lettere storiche. Ad una prova durissima fu sottoposta in questi anni la popolazione locale, costretta a barcamenarsi fra una dedizione a Massimiliano d’Absburgo (settembre 1510) e una forzata partecipazione alle vicende belliche. Il 3 agosto 1511, ad esempio, “in Suave Todeschi amazéte tresento e sesanta sei homeni et bruséte tute le case sí drento come nei borgi”, come si annotò nel foglio di guardia di un manoscritto cinquecentesco dell’archivio comunale.
Fu l’ultima occasione tuttavia; successivamente la fortezza (largamente ricostruita) fu talvolta adibita ad usi cerimoniali e passò in mani private (quelle della famiglia Gritti). La sua storia in età moderna è ancora da scrivere. È lecito pensare però che non abbia perso mai il suo valore simbolico, neppure nel corso dell’Ottocento (quando presumibilmente lo visitò, bambino, Ippolito Nievo): per giungere poi alla complessa operazione culturale – molto raffinata per l’epoca – progettata ed eseguita dal Camuzzoni col suo restauro di fine Ottocento.

Economia agraria ed espansione della proprietà fondiaria cittadina: cenni

In effetti a partire dal Cinquecento la storia di Soave può prescindere dal castello, e i cenni sintetici ma efficaci del Sanudo sulla amenità dei luoghi in qualche modo ne sono un segnale: si noti fra l’altro, nel suo testo, l’ingenuo espediente della ripetuta paretimologia [la “villa suavissima”, la “suavità di questo loco”] e la credenza che in conseguenza di questo gli Scaligeri abbiano fondato ex novo il castello e dato nome a Soave. In tutto l’Itinerario l’autore è del resto sempre sensibilissimo al fascino paesaggistico delle terre visitate durante il suo viaggio (anche del lago di Garda, per ricordare un altro esempio significativo, parla con toni lirici).
La bellezza del sito conduce al problema dell’attrattiva esercitata da questa gradevole, e ricca, zona collinare sull’investimento fondiario dei cittadini di Verona (e in prospettiva dei Veneziani) e dell’insediamento di villa; in generale, porta ai problemi della storia agraria. Sono fenomeni che certo non sono influenzati esclusivamente dal paesaggio, e che non coinvolgono solo le pendici collinari e la vallata del Tramigna, ma anche la parte pianeggiante del territorio di Soave: altri ne tratta nel presente volume, ma qualche dato per il Trecento e Quattrocento è in questa sede imprescindibile, come logico punto d’arrivo di trasformazioni plurisecolari. Mi limiterò ad indicare alcune tipologie di famiglie, che attraverso diverse strade consolidano proprio allora la loro presenza in Soave.
Si è già accennato, in precedenza, al ‘ricambio’ che le vicende politiche due-trecentesche avevano determinato tra le famiglie cittadine presenti patrimonialmente a Soave: nel corso del Trecento, erano comparsi parecchi esponenti del ceto dirigente scaligero. Fra questi, hanno un ruolo importante nella fascia di pianura, a valle dell’abitato, i Cavalli (saldamente insediati in tutta l’area orientale del distretto veronese, da Villabella a Locara, da Torri dei Confini a S. Pietro di Villanova a Castelcerino, ove possiedono centinaia di campi). Il testamento di Lucia Greppi, moglie di Federico di Corrado Cavalli, redatto nel 1429 “in Vilabella veronensis districtus, penes conffines castri Suapis”, restituisce appieno l’idea del ‘peso’ di questa casata nel territorio di Soave, soprattutto con la solennità dell’atto (al quale presenziano l’abate di Villanova, l’arciprete di S. Bonifacio, il vicario di S. Bonifacio, Nicola Cavalli capitano di Soave, il medico Giovanni di Arnolfo d’Arcole), ma anche attraverso le clausole di sepoltura (a Villanova, in caso di morte a Villabella) e il forte vincolo di unità della domus (eredi, dopo la morte del marito, saranno i nipoti, Federico Nicola e Dondadeo figli di Iacopo e di Aquilina Greppi, sorella della testatrice). In occasione della liquidazione dei beni della fattoria scaligera, ai primi del Quattrocento, oltre ai Cavalli figurano fra gli acquirenti anche i Verità. Non meno rilevante la presenza, nella villa di Castelcerino, della famiglia Alberti, subentrata ad una famiglia di prestatori di denaro toscani, i “de Nuto”, e anch’essa vicina, nel Trecento, agli Scaligeri. Pantaleone Alberti e i suoi discendenti accumulano infatti pazientemente, lungo tutto il Quattrocento e il Cinquecento, campi e vigne: non meno di una quarantina di acquisti nella seconda metà del secolo, frutto della espropriazione di piccoli proprietari o livellari indebitati (fra i quali figura lo stesso comune di Castelcerino) secondo gli schemi piú classici che caratterizzano l’espansione agraria cittadina nelle fasce collinari. Sono numerosi i piccoli proprietari di Soave che devono cedere agli Alberti le loro vigne o i loro modesti oliveti ubicati nelle colline sovrastanti il borgo.
Un diverso profilo di famiglia presente a Soave è offerto invece dai Guastaverza, una stirpe originaria del borgo ove era già eminente nel primo Duecento. Inurbatisi forse nella prima metà del secolo successivo, i Guastaverza (o “Taiaverza”, forma usata nelle fonti trecentesche) si arricchirono ulteriormente, e notevolmente, col commercio dei panni di lana che praticarono anche sui mercati pugliesi (familiari a molti draperii veronesi); ma non dimenticarono la terra d’origine, mantenendo per lunghissimo tempo il giuspatronato di un altare nella pieve di S. Lorenzo e controllando un cospicuo feudo decimale.
Altri patrizi, come i veronesi Maffei, sono invece nel Quattrocento interessati al Tramigna e allo sfruttamento delle sue acque. Essi erano subentrati ai primi del secolo a Balzarino Pusterla, un funzionario del governo visconteo, nel possesso di uno dei mulini che sfruttavano (grazie ad una deviazione del corso: “vas aqueductus situm in pertinentia Suavii ubi posita et situata sunt molendina”) le acque del Tramigna, a valle dell’abitato; e appunto per l’uso delle acque sostengono attorno al 1440 una controversia (discussa anche di fronte alle magistrature d’appello di Venezia) con il rappresentante dell’abate commendatario di S. Pietro di Villanova. Ma non mancano neppure le presenze veneziane, fra Quattro e Cinquecento. I Tron costruirono sul Tramigna, a fine secolo, un follone per i panni di lana, poi distrutto a seguito delle proteste del comune di Verona che rivendicava (come aveva fatto anche contro le pretese del comune di Legnago) l’esclusiva sui processi di rifinitura dei tessuti. In qualche occasione l’interesse dei patrizi veneziani per Soave andò dunque oltre la carica di castellano, semplice e modesta tappa del cursus honorum; e di lì a poco i Gritti si sarebbero insediati nella non lontana Villabella, in pianura. Anche il beneficio della pieve di S. Lorenzo (come quelli di altre grandi pievi del territorio diocesano: Garda o S. Floriano di Valpolicella, per esempio) fu in piú di una occasione nelle mani dei patrizi lagunari.
Ma si tratta di semplici accenni. Il problema di fondo della storia di Soave in età moderna resta quello sopra enunciato: quello delle trasformazioni strutturali, di lungo periodo, dell’economia agraria. Con quanta intensità venne ad a incidere la proprietà fondiaria veronese o veneziana, introducendo nuove tipologie di contratto a scadenza limitata nel tempo (come la lavorenzia, il contratto parziario di tipo mezzadrile cosí diffuso nel territorio veronese in età moderna)? Quanto invece resistette, lungo l’età moderna – come accadde in molte località della collina veronese -, il piccolo possesso contadino? Per dare una risposta, occorrerà un esame ampio ed approfondito delle fonti del Quattrocento e dei secoli successivi.

Articolo tratto da “Soave, terra amenissima, villa suavissima”

Ultimo aggiornamento: 26/04/2024, 17:06

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